Quale vaccino per la sofferenza? Le riflessioni del filosofo Byung-Chul Han

La pandemia, secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han, sta portando avanti quel processo di trasformazione della società verso felicità e resilienza “a tutti i costi” per una «società senza dolore».


Lo scorso anno, in piena pandemia da Covid-19 uno dei più importanti filosofi contemporanei, Byung-Chul Han ha pubblicato un breve libro da titolo Palliativgesellschaft Schmerz heute (La società palliativa. Il dolore oggi). Agli inizi del 2021 Giulio Einaudi decide di pubblicarne prontamente una traduzione italiana dal titolo La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite. Il tema, che si pone in forte controtendenza rispetto alla retorica pandemica che affolla i telegiornali, i quotidiani e la cultura di massa da ormai quasi due anni, sferra dei colpi decisi al sogno tecnocratico di una “società del benessere”. 

Byung-Chul Han nasce a Seoul (Corea del Sud) nel 1959 (età 62 anni), tuttavia la sua formazione accademica avviene interamente in Germania, tanto da essere conosciuto ormai nel mondo come uno dei più importanti filosofi tedeschi viventi. Han studia Filosofia, Germanistica e Teologia cattolica a Friburgo e a Monaco, per poi iniziare la sua attività come docente alla Universität der Künste (Università delle Arti) di Berlino.  

Le sue pubblicazioni sono state negli ultimi anni davvero prolifiche: La società della stanchezza (2012); Eros in agonia (2013); La società della trasparenza (2014); Nello sciame. Visioni del digitale (2015); Psicopolitica (2016); L’espulsione dell’altro (2017), La salvezza del bello (2019); Che cos’è il potere (2019); Topologia della violenza (2020). 

In La società senza dolore, Han riprende il tema di una severa critica al neoliberismo, declinando stavolta le sue argomentazioni nell’ottica della immane tragedia del Covid che ha suscitato durissime reazioni governative in tutto il mondo nel troppo spesso vano sforzo di contenerne il contagio. 

Tuttavia, in questo anno di pandemia, sono emerse per il filosofo tedesco le caratteristiche che più propriamente descrivono la nostra società, le quali a suo giudizio ben presentano davanti agli occhi i rischi e – cosa più importante – le direzioni, verso cui noi, passeggeri di un’arca ormai globale, stiamo naufragando. Proviamo ad analizzarne alcune, pur nella consapevolezza di non poter esaurire la ricchezza del testo.

La principale caratteristica della nostra società della salute, che ha consacrato come virtù suprema il benessere, il wellness, e il self-care è per Byung-Chul Han l’algofobia (paura del dolore), la quale implica uno stato di anestesia spirituale permanente che ha conseguenze sulle relazioni personali, sociali e persino politiche. 

L’autore si scaglia polemicamente sul concetto di resilienza, asserendo che non si tratti di una vera virtù, poiché la resilienza è imposta dall’imperativo della positività che regna appunto in una società algofobica

La resilienza è inoltre valutabile come “prestazione”, un muscolo da allenare per vincere una competizione il cui premio sembra essere una felicità “a tutti i costi”. Quest’ultima è diventata infatti la missione della psicologia contemporanea che si è trasformata in psicologia positiva o della felicità. Essa allinea le quanto mai diverse e ineguali condizioni di vita e di nascita delle persone nel mondo all’ideale del benessere appiattendo, dunque, le effettive disuguaglianze sulle quali la società tutta e gli Stati dovrebbero intervenire, tra cui: la capacità autonoma dell’individuo di “farcela”, di “realizzare i propri sogni”, i quali hanno troppo spesso la forma di un superattico piuttosto che di un percorso di elevazione e crescita personale, sociale, spirituale, intellettuale e civile.

Byung-Chul Han

La società algofobica è anche una «società della sopravvivenza che perde del tutto il senso della buona vita», commenta il filosofo. Durante la pandemia il valore della salute è stato elevato al rango di sommo bene, questo ha fatto sì che, mediante l’autoisolamento, la vita si riducesse a “nuda vita”, l’home office è diventato il nuovo campo di autosfruttamento. «Dinanzi alla pandemia, la società della sopravvivenza vieta persino la messa di Pasqua […] i sacerdoti sacrificano del tutto la fede sull’altare della sopravvivenza. […] il prossimo si riduce ad essere un potenziale infetto. La virologia ha esautorato la teologia, acquistando un’autorità interpretativa assoluta».

L’importanza di apprendere “l’arte della buona vita” deriva per Han dalla necessità di apprendere qualcosa di essenziale sulla morte, «Oggi morire ci risulta particolarmente difficile poiché non è più possibile concludere la vita in maniera sensata». Senso e sopravvivenza sembrano dunque essere logiche condannate ad autoescludersi, ma restano comunque sempre intrecciate perché il nesso tra dolore e senso di sicurezza rappresenta un essenziale motore di azione.

Il motivo elementare per cui la nostra società scientifica ha effettivamente dichiarato guerra al dolore in tutte le sue forme (fisico, psicologico, spirituale, materiale) è che la sofferenza viene interpretata come fine a sé stessa; in questo senso eliminarla è diventata comprensibilmente la mission (im)possible della società palliativa, anestetizzata e ipocondriaca in cui viviamo. 

L’esperienza religiosa, ma anche umana e artistica che ci precede, tuttavia, offre ancora l’opportunità di vedere nel dolore un atto creativo, una maieutica (arte di far partorire). «Il dolore – dice Han – è un affidabile criterio di verità. È vincolo, è differenza, è realtà, acuisce la percezione di sé, senza la cultura del dolore nasce la barbarie. Il dolore anima la fantasia, lo spirito è dolore», travaglio, passione (dal verbo latino patio, “subisco/tollero”). Queste affermazioni che possono sconvolgere o incuriosire, mettono comunque in questione che il dolore sia interpretabile solo come uno “scandalo”.

Il dolore è, a pensarci bene, aggiunge l’autore, «l’essenza della formazione» e la via della formazione interiore è una via dolorosa. Tuttavia è innegabile che la salute sia un bene prezioso, forse il più prezioso, e quindi anche il più preteso e mercificato.

Il filosofo tedesco giunge infine a dire che il dolore è un dono, affermazione che oggi suona come una ricaduta in una mistica della sofferenza, una malsana forma di masochismo spirituale. La grande verità sulle ragioni del dolore e della sofferenza è però che: «La ferita che fa male è un’apertura primordiale all’Altro. Essa è responsabile dell’inquietudine che ci fa mettere nei panni dell’altro», materia prima dell’empatia. 

Disimparare l’empatia significa che «Senza il dolore verso l’altro non abbiamo accesso al dolore dell’altro», ossia abbiamo minori capacità e attitudini a comprenderci e – aggiungerei – a rispettarci. 

All’opposto dell’imperativo della positività e all’apparenza di virtù della resilienza “a tutti i costi”, l’autore propone, come terapia efficace contro l’algofobia, di coltivare la virtù della megalotimìa (termine greco che significa “slancio verso ciò che è superiore”, verso grandi ideali) quale sforzo eroico collettivo e “motore trainante della storia”. Nella democrazia liberale, per Han la megalotimìa risulta indebolita sia dalla crescente isotimìa, “lo slancio verso i pari diritti”, sia dal crescente desiderio di comfort. Per queste e numerose altre ragioni, essa sembra favorire la nascita dell’“ultimo uomo”, espressione che supporta la metafora di uno schiavo che ha barattato la sua libertà per la “confortevolezza” della prigione.


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