21 Settembre 1990: l’omicidio di Rosario Livatino, le indagini e la beatificazione del giovane giudice
Il 21 settembre 2023 ricorre il 33esimo anniversario della morte del Giudice Rosario Angelo Livatino, giovane magistrato in servizio presso il Tribunale di Agrigento, a seguito di un agguato posto in essere da un commando di killer.
Le stragi degli anni ‘90 hanno forgiato non solo l’intera Nazione, ma intere generazioni di giovani attivi sul territorio. Il 21 settembre 2023 ricorre il 33° anniversario della morte del Giudice Rosario Angelo Livatino, giovane magistrato in servizio presso il Tribunale di Agrigento, a seguito di un agguato posto in essere da un commando di killer.
Di seguito, vi riportiamo una fedele ricostruzione del caso, reso possibile grazie alla supervisione dell’ex agente della direzione investigativa antimafia Giuseppe Boccadoro, che ringraziamo caldamente.
Rosario Livatino: la vita e gli studi
Nato il 3 ottobre 1952 a Canicattì, un grosso comune agricolo della provincia di Agrigento noto per la produzione della “Uva Italia” era figlio unico di Vincenzo Livatino, avvocato, impiegato presso la locale Esattoria comunale e di Rosaria Corbo, casalinga. La sua unicità lo fece crescere promettente negli studi e nella fede.
Frequentando con ottimo profitto le scuole elementari e medie, consegue la maturità nell’anno scolastico 1970/71 presso il locale Liceo Classico “Ugo Foscolo” e successivamente, in data 04/10/1971, chiese al Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Palermo di essere ammesso a frequentare il primo corso della facoltà di Giurisprudenza. Il 9 luglio 1975, all’età di 22 anni conseguì la Laurea in Giurisprudenza con lode, con il Professore Antonio Pagliaro. Tra il 1977 e il 1978 prestò servizio come vicedirettore in prova presso l’Ufficio del Registro di Agrigento.
Nel luglio del ‘78, all’età di 26 anni, dopo essersi classificato tra i primi in graduatoria nel concorso, entrò in Magistratura e venne assegnato al Tribunale Ordinario di Caltanissetta. L’anno successivo diventò Sostituto Procuratore della Repubblica: in tale veste fu impegnato ad indagare sia su fatti relativi alla criminalità mafiosa sia per quanto riguardavano la corruzione e le tangenti.
Le prime indagini e la sua lotta contro la mafia
A seguito di una sua intuizione, la Procura della Repubblica di Agrigento avviò un’indagine su un presunto giro di fatture false e/o gonfiate per un valore di circa 52 miliardi delle vecchie lire che alcuni grossi imprenditori siciliani ottenevano dalle ditte subappaltatrici dell’isola per opere mai eseguite oppure appena avviate. Tale indagine, per competenza territoriale, venne demandata alle Procure della Repubblica isolane interessate.
Nello stesso periodo, Livatino si occupò della prima grossa indagine sulla mafia agrigentina insieme ai suoi colleghi, i Sostituti Procuratori Salvatore Cardinale e Roberto Saieva, il Giudice Istruttore Fabio Salamone, coordinati dal Procuratore Capo Elio Spallita. Tale indagine sfociò nel maxi-processo contro i mafiosi di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera, (cd. Ferro Antonio+43), che si tenne ad Agrigento, presso l’aula bunker di Villaseta (ex palestra sportiva) nel 1987 e si concluse con quaranta condanne.
Nell’ambito di tale inchiesta, Livatino si trovò ad interrogare diversi politici dell’agrigentino, tra i quali gli onorevoli Angelo Bonfiglio, Gaetano Di Leo e Calogero Mannino, chiamati a riferire sui loro rapporti con esponenti mafiosi locali. Nella sua attività si era occupato, anche, di quella che sarebbe esplosa come la Tangentopoli siciliana, utilizzando tra i primi lo strumento della confisca dei beni ai mafiosi. Fino al 20 Agosto 1989 ricoprì la carica di Sostituto Procuratore della Repubblica per assumere poi, il 21 Settembre 1990, il ruolo di Giudice a Latere.
Quel venerdì del 21 settembre 1990, Rosario Livatino avrebbe dovuto godere delle proprie ferie, ma aveva un importante impegno d’ufficio: quella mattina avrebbe dovuto partecipare ad una udienza per proporre la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con divieto di soggiorno per degli esponenti della stidda di Palma, di Montechiaro e Canicattì.
In quel momento storico, l’atmosfera in Sicilia era particolarmente pesante a causa della guerra di mafia scatenata a Palermo dai corleonesi di Totò Riina, che aveva provocato un indebolimento di cosa nostra, anche in altre province siciliane, e favorito la formazione, attorno a mafiosi «messi fuori famiglia» o delle fazioni perdenti, di nuovi gruppi criminali, denominati stidda (stella), con l’obiettivo di soppiantare, attraverso una violenta e serrata opera di sterminio, le famiglie di cosa nostra locali. A seguito di ciò, anche la provincia di Agrigento si trasformò in palcoscenico di violenti ed efferati omicidi tra le contrapposte fazioni.
L’agguato e l’omicidio del giudice Rosario Livatino
Come ogni mattina, intorno alle ore 07:45 usciva da casa, sita in Viale Regina Margherita nr. 166 di Canicattì: dopo avere salutato i genitori, si poneva alla guida della sua Ford Fiesta, colore rosso amaranto, targata AG*174248 ed avviava la marcia per raggiungere il Tribunale di Agrigento, distante circa 35 chilometri.
Quella mattina Livatino, che aveva l’età di 37 anni e che ne avrebbe compiuto 38 tra poco più di due settimane, non sapeva che non sarebbe più ritornato nella propria casa con i propri piedi perché qualcuno aveva deciso per la sua vita.
Era infatti osservato dalle vedette dei killer che avevano deciso di tendergli un agguato. Avrebbero potuto freddarlo davanti la propria abitazione oppure all’interno del paese, invece scelsero di pedinarlo. Il pedinamento si prolungò per un lungo tratto di strada, fino a quando non decisero di intervenire.
Alle ore 08:30 circa, giunti all’altezza del chilometro 10 della Strada Statale 640, in direzione Agrigento, nei pressi del Viadotto Gasena, una strada a doppio senso di circolazione con intenso traffico, i killer a bordo di auto e moto di grossa cilindrata aprirono il fuoco all’indirizzo della Ford Fiesta.
Un colpo frantumò il lunotto posteriore dell’auto. Il Giudice Livatino si accorse di essere oggetto di un attentato alla sua vita. Immediatamente il suo cuore iniziò a pompare sangue ed il panico lo avvolse. I killer continuano a sparare. Rosario Livatino non aveva con sé un’arma, presumibilmente per fede cattolica, seppure la legge glielo consentisse per via della sua attività lavorativa di magistrato. Sotto al fuoco nemico, per istinto di sopravvivenza, arrestò la macchina sul ciglio della strada, oltrepassò il guard rail ed iniziò a correre lungo la scarpata, in direzione del piccolo ruscello sottostante, alla ricerca di un posto dove potersi riparare e sperare che i killer desistessero dal loro fine criminoso.
Nella corsa, sul terreno incostante, perché braccato come una preda, come un animale, inciampò e cadde causandosi una frattura alla caviglia. A seguito di ciò, rimase immobile perché dolorante, così venne raggiunto dai killer in fondo alla scarpata che lo accerchiarono. Gli puntarono contro le armi ed in quel momento il giudice Livatino gridò: «picciotti, cosa vi ho fatto?». La risposta fu un colpo di grazia alla testa.
In quei lunghi minuti passò casualmente da quella strada un agente di commercio, tale Pietro Ivano Nava, il quale accorgendosi dell’accaduto provvide a telefonare al 113 fornendo le indicazioni di quanto stava accadendo. Immediatamente venne raggiunto sul posto dal personale delle Volanti e della Squadra Mobile che provvidero ad identificare la vittima. A seguito dello stupore delle generalità del povero malcapitato, in città si avvertì un rumore assordante di sirene delle auto delle Forze dell’Ordine sguinzagliate alla ricerca degli autori di quell’efferato omicidio di mafia.
Lo Stato doveva reagire a quella sfida e, grazie alle circostanziate dichiarazioni del testimone oculare, a cui tra l’altro si sconvolge la vita per ragioni di sicurezza personale, gli investigatori riuscirono ad individuare i mandanti e gli esecutori materiali dell’omicidio. Tale Vincenzo Collura della stidda di Canicattì, memore del gravoso provvedimento della confisca dei beni applicatogli da Livatino, non pago della sua efferata eliminazione, si vantò di essere l’autore della spregevole profanazione della tomba del giudice, effettivamente commessa nella notte tra il 22 e il 23 aprile del 1991.
Per capire chi fosse realmente Rosario Livatino si può partire da un particolare: su una pagina della sua agenda e in altri suoi scritti si rinvenne una piccola croce e sotto la sigla S.T.D. Le tre lettere furono un vero rompicapo da enigmisti, la cui spiegazione venne trovata nel titolo della sua tesi di laurea e nella sua fede. Con quelle iniziali, “Sub Tutela Dei”, Rosario Livatino invocava l’assistenza divina nella sua quotidiana opera di giudice, avendo del suo ruolo un’altissima considerazione; fedeltà alla Legge e alla propria coscienza; impegno nella preparazione professionale e nella cura delle decisioni; rigorosa condotta di vita, serietà, equilibrio, responsabilità e umanità.
Le lunghe e tormentate indagini sul caso Livatino: i tre processi
Le prime indagini sull’omicidio Livatino procedettero molto velocemente grazie, come detto, alla testimonianza di Pietro Nava. Il 7 ottobre 1990, dopo appena quindici giorni dal delitto, gli uomini del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, in collaborazione con la polizia tedesca, individuarono ed arrestarono nei pressi di Colonia due esponenti della stidda di Palma di Montechiaro, tali Paolo Amico e Domenico Pace, entrambi ventitreenni, da tempo residenti in Germania dove ufficialmente facevano i pizzaioli. Tali arresti portarono al primo processo per l’omicidio Livatino, (cd. “Livatino Uno”), che iniziò nel novembre 1991 e vedeva appunto imputati Amico e Pace come esecutori materiali del delitto.
Nel frattempo sopraggiunsero le dichiarazioni di tale Gioacchino Schembri, un altro esponente della stidda palmese, anch’egli emigrato in Germania che iniziò a collaborare con il giudice Paolo Borsellino, nel giugno 1992, il quale accusò Amico e Pace di aver partecipato all’omicidio e rivelò i nomi di altri responsabili: tali dichiarazioni si rivelarono decisive insieme alle altre testimonianze e prove e il 18 novembre 1992 indussero la Corte di Assise di Caltanissetta, presieduta dal Procuratore Renato Di Natale, a condannare all’ergastolo Amico e Pace, sentenza poi confermata sia in Appello che in Cassazione.
Venne, altresì accertato che l’omicidio del giudice Livatino era stato ideato e deciso proprio attraverso la comunicazione tra boss detenuti e tra loro e gli affiliati in libertà: Antonio Gallea, capo emergente della stidda di Canicattì, con Giovanni Calafato, capo emergente della stidda di Palma di Montechiaro. Entrambi erano ristretti nel medesimo carcere di Agrigento, in forza della citata sentenza di condanna, «Ferro Antonio+43», per la detenzione di armi ed esplosivo.
In quel tempo, non era stato ancora introdotto il regime di cui all’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, previsto solo dalla normativa del 1992, proprio sulla consapevolezza della necessità di recidere il permanere durante la detenzione carceraria, dei collegamenti tra boss mafiosi e di costoro con il mondo esterno, collegamenti che consentivano di trasmettere ordini, di verificarne la corretta esecuzione. Quando il primo, Antonio Gallea, comunicava al secondo, Giovanni Calafato, il proposito omicida e chiedeva un aiuto e una sorta di benestare per l’esecuzione dell’efferato delitto. La decisione maturava a seguito dei colloqui che Giovanni Calafato effettuava con il fratello Salvatore, che con lui condivideva il progetto criminoso di Giovanni Avarello.
Nei loro colloqui emergeva il profondo risentimento per la durezza delle misure di prevenzione richieste dal Giudice Livatino, quale Pubblico Ministero, nei confronti di loro affiliati e, del pari, emesse quale Giudice del Tribunale, nonché la severa condanna inflitta a Giovanni Calafato, Antonio Gallea (zio di Avarello) e Santo Rinallo per violazione della legge sulle armi.
Gli stiddari di Canicattì, e tra essi Avarello, al fine di persuadere quelli di Palma di Montechiaro, avevano infatti sottolineato che Rosario Livatino aveva avuto un atteggiamento più rigoroso nei confronti degli stiddari rispetto alla frangia mafiosa rimasta in cosa nostra, circostanza però smentita dalle sentenze dei tre giudizi che hanno riguardato il suo omicidio.
Nel 1993, grazie alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gioacchino Schembri, vennero individuati ed arrestati gli altri membri del gruppo di fuoco stiddaro che assassinò il Giudice Livatino: Gaetano Puzzangaro, di anni 23, detto “la mosca“, originario di Palma di Montechiaro, Giovanni Avarello, di anni 28, esponente della stidda di Canicattì e Giuseppe Croce Benvenuto, di anni 23, anch’egli “stiddaro” palmese, il quale iniziò a collaborare a sua volta con la giustizia e fornì nuovi particolari.
Per queste ragioni, nello stesso anno il Giudice per le Indagini Preliminari, Sebastiano Bongiorno, su richiesta della Procura della Repubblica di Caltanissetta, emanò un’ordinanza di custodia cautelare nei loro confronti, che condusse al secondo processo per il delitto Livatino (cd. “Livatino Bis”), che vedeva imputati, oltre a Puzzangaro ed Avarello, anche Domenico Pace e Paolo Amico, (già condannati all’ergastolo nel primo processo), per detenzione abusiva delle armi adoperate nell’omicidio mentre la posizione di Croce Benvenuto venne stralciata.
Il processo si concluse in primo grado nel luglio 1995, quando la Corte d’Assise di Caltanissetta, sempre presieduta dal Procuratore Renato Di Natale, condannò all’ergastolo Puzzangaro ed Avarello mentre Amico e Pace al pagamento di un milione di lire di multa perché quel reato costituiva la continuazione di quello di omicidio per cui erano già stati condannati nell’altro processo. Negli anni successivi la sentenza venne confermata negli altri due gradi di giudizio.
Nel 1997 iniziò il terzo processo (cd. “Livatino Ter”), scaturito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giuseppe Croce Benvenuto e Giovanni Calafato, che confessarono di avere partecipato alla fase ideativa ed organizzativa dell’agguato: gli imputati erano, oltre agli stessi Croce Benvenuto e Calafato, Antonio Gallea, Salvatore Calafato, (fratello di Giovanni), Salvatore Parla e Giuseppe Montanti, capi delle “stidde” di Canicattì e Palma di Montechiaro, accusati di essere i mandanti dell’omicidio del Giudice Livatino poiché credevano erroneamente che il Giudice favorisse il loro nemico, il boss di “cosa nostra” Giuseppe Di Caro, suo vicino di casa, e perseguisse invece la loro organizzazione con l’applicazione di pesanti misure di prevenzione e condanne.
Nel 1998 la Corte di Assise di Caltanissetta, presieduta dal Procuratore Luigi Russo, condannò Antonio Gallea all’ergastolo e Salvatore Calafato a ventiquattro anni di reclusione mentre i collaboratori Croce Benvenuto e Calafato vennero condannati rispettivamente a diciotto e sedici anni di carcere; Parla e Montanti vennero invece assolti.
Al processo di Appello non si costituirono Parte Civile i genitori del Magistrato ucciso, Vincenzo Livatino e Rosalia Corbo, i quali in un’intervista giornalistica chiarirono le motivazioni: “Siamo stanchi di tutto. Siamo stanchi delle parole e anche dei processi“.
Infine nel settembre 1999 la Corte di Assise di Appello di Caltanissetta modificò la sentenza di primo grado: la pena dell’ergastolo venne confermata per Gallea ma estesa anche a Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti, mentre la posizione di Croce Benvenuto e Calafato venne stralciata dal processo e, giudicati separatamente, ebbero entrambi tredici anni di carcere con lo sconto di pena previsto per i collaboratori di giustizia.
Nell’ottobre 2001 la Prima Sezione Penale della Cassazione confermò l’ergastolo per Gallea e Calafato ma dispose lo stralcio per la posizione degli altri due imputati Giuseppe Montanti e Salvatore Parla, il cui ergastolo sarà infine confermato l’anno successivo e diverrà definitivo.
La beatificazione di Rosario Livatino
Nel 1993 il vescovo di Agrigento, Carmelo Ferraro, ha incaricato la professoressa del giudice Ida di raccogliere testimonianze per la causa di beatificazione e nel 2010 venne firmato il decreto per il processo di beatificazione che avverrà nella chiesa di San Domenico di Canicattì, il 21 settembre 2021. Nel percorso di beatificazione hanno testimoniato numerose persone sulla vita e la santità di Livatino, tra i molti anche uno dei killer mafiosi del giudice, Gaetano Puzzangaro
Nel 2020 la pratica di beatificazione arriva in Santa sede e Papa Francesco autorizza la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il decreto del martirio. La cerimonia di beatificazione si è svolta nella Cattedrale di Agrigento il 9 maggio 2021, e la camicia che indossava il giorno dell’omicidio ci perviene come reliquia, assieme ad una tecla in argento alla base della quale vi sono un codice penale e un Vangelo avendo cercato così per tutto il tempo della sua giovane vita di accostare alla coerenza cristiana, quella civile, facendo della conoscenza delle sacre scritture il suo stile di vita.
di Silvia Boccadoro