Non possiamo più respirare: la negritudine ha condannato a morte George Floyd

 

Minneapolis, Minnesota. Lo scorso martedì 26 maggio, George Floyd è stato fermato per un controllo di polizia a seguito di una segnalazione di un negoziante. Il 46enne è stato trattenuto sull’asfalto e per almeno cinque minuti gli è stato tenuto un ginocchio sul collo a soffocargli il respiro. Nonostante avesse ripetuto più volte «Non posso respirare», gli agenti hanno continuato in questa esecuzione pubblica fino a quando l’uomo è rimasto privo di conoscenza, prima di essere caricato in ambulanza. Dopo qualche ora è stato dichiarato morto per «un’incidente medico».

Mentre la polizia di Minneapolis ha dato la sua versione dell’arresto – in cui Floyd resisteva all’arresto – il video integrale di una telecamera all’angolo della strada mostra invece che l’uomo non rappresentava affatto una minaccia e che non ha opposto resistenza né durante il controllo iniziale e neanche durante la (inopportuna) manovra di immobilizzazione.

Un principio cardine del diritto penale è che la pena sia “proporzionata al reato”. L’atto di aggressione della polizia non è per nulla proporzionale all’azione criminale del reo, il quale giace immobile sull’asfalto tra una ruota e un ginocchio compresso sul collo.

Non è un semplice caso di tortura, poiché la componente razziale è necessariamente un elemento tangibile e di forte impatto. Il simbolo più becero di questo atto di violenza è che a praticarlo fosse proprio una forza “dell’ordine” e che lo stesso agente, consapevole che qualcuno lo stesse riprendendo, continui, nella totale noncuranza della legge e dell’etica professionale, a premere quel ginocchio. A dimostrazione del fatto che la violenza è esercitata con arroganza e orgoglio, a dimostrare che il white power è ancora presente.

Quel ginocchio sul collo è proprio il simbolo di un potere forte che non accetta contraddittorio, un potere sovrano che schiaccia con la forza ogni minimo dissenso. Il razzismo “istituzionalizzato” e la legittimazione di questo tipo di potere partono dall’amara constatazione che i neri non hanno gli stessi diritti dei bianchi.

Negli Stati Uniti, l’anno scorso 1099 persone sono state uccise negli interventi di polizia. Le persone di colore, che rappresentano circa il 24 per cento dei decessi, hanno il 2,5 per cento in più di possibilità di morire a seguito di un confronto con la polizia. 

Gli Stati Uniti non si sono svegliati di colpo più razzisti; il Paese vanta una lunga storia di morti color nero e tanti anche per mano delle forze dell’ordine. Michael Brown, Trayvon Martin, Eric Garner, Trayvon Martin e ancora Adama Traoré, Vakhtang Enukidze. George Floyd è solo l’ultimo nella lista dei decessi a sfondo razziale per mano delle forze dell’ordine. Ma allora ci si domanda: black lives matter

Gli Stati Uniti e il mondo intero si sono svegliati forse (ancora) più coscienti e certamente indignati. A dimostrazione di ciò i riots di Minneapolis stanno dando prova del forte dissenso. E sebbene possa essere insensato rispondere alla violenza con altrettanta violenza, quando il “mondo civile” porta alla morte, la rivolta è l’unica reazione logica.

La risposta, a qualche ora dall’omicidio, si è subito fatta sentire e migliaia di persone si sono riversate in strada. Una massa dal basso ha preso posizione di fronte all’abuso di potere e al “razzismo di Stato”. Pensare di essere ucciso da chi invece dovrebbe proteggerti è un’ingiustizia difficile da tollerare, e gli animi più violenti stanno rispondendo con tutta la loro forza a questa ennesima inaccettabile azione di polizia.

«I can’t breathe», le ultime parole, diventate iconiche, di George Floyd, lasciano tutti senza fiato. Abbiamo assistito a un’esecuzione in diretta, il cui capo di imputazione è stato l’essere nero e l’aguzzino colui che ha il compito proteggere.

Il razzismo legato al colore della pelle, alla provenienza geografica, alla religione, all’orientamento sessuale o al genere è ancora presente negli Stati Uniti come in altre parti del mondo. Questo è il momento per rivalutare credenze e stereotipi troppo a lungo reiterati, ed è il momento di fermare l’abuso di potere esercitato dalle forze dell’ordine e dalle istituzioni. Sono maturi anche i tempi per condannare le forme di razzismo alla stregua di altri reati, perché le parole non sono solo parole.

La rabbia sollevata da questa morte porta a ragionare sulla scia del “sangue nero” sparsa nel Mediterraneo, sugli atti sistematici di tenue razzismo diffuso sulle strade delle nostre città e su coloro che giornalmente vivono con un ginocchio schiacciato al collo, come il popolo palestinese. Frantz Fanon, martinicano, teorico del movimento della negritudine e sostenitore dei movimenti indipendentisti contro i colonialismi del Novecento, asseriva che «ci ribelliamo [i dannati della terra ndr] semplicemente perché, per molte ragioni, non possiamo più respirare». La linea del colore non è una lotta del Novecento; le democrazie contemporanee che promettono l’uguaglianza senza tutelarla, mostrano che è ancora un imperativo rompere le linee del colore.


 

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