La bellezza dell’imperfezione: gli artisti e il “body shaming”

Troppo grassi, troppo magri, troppo brutti, troppo belli, troppo strani, troppo normali: la grande menzogna dello standard. L’arte batte il body shaming.


«Potresti curarti un po’ di più.. Sei sciatta», «non credo che questo vestito sia adatto a te, il tuo peso non lo consente», «ti hanno tirato un piatto di lenticchie in viso?», «ma mangi? Sembri anoressica». Tante, tantissime frasi o considerazioni inopportune vengono dette e fatte, additando come diverso o degno di derisione chi è fuori da quegli schemi dettati dalla società odierna, la “fiera della vanità” in cui sembra vigere un mantra: apparire prima di essere.

Bombardamenti mediatici quotidiani sembrano volerci mettere inesorabilmente al confronto con ciò che questa società dell’apparenza ci suggerisce, ovvero ciò che considerano la “perfezione”: un bel viso, un bel corpo esente da naturali sfaccettature da cui normalmente è plasmato. Il risultato è sentirsi sbagliati, diversi, fuori standard.

Il nostro involucro sembra esser diventato, il più delle volte, unico biglietto da visita sul quale basare qualsivoglia giudizio: la facciata, dunque, sarà sempre predominante e occuperà il primo posto di un immaginario podio. Qualora la facciata fosse “deturpata” da una particolarità “fuori canone”, quest’ultima diventerà a sua volta predominante, tanto da trasformarsi in etichetta. L’etichetta, così, diventa il tratto distintivo di un individuo che si vede privato della sua identità in quanto tale, diventando la personificazione stessa di ciò che gli altri definiscono “difetto”.

“La ragazza con la cellulite”, “il ragazzo con l’apparecchio”, “il ragazzo con l’acne”: quante volte abbiamo sentito o letto del dolore che queste parole potrebbero causare, incrinando l’autostima e la fiducia in se stessi e negli altri?

Questo fenomeno ha un nome ben preciso: body shaming, derisione del corpo, legato principalmente ai media – televisione, cinema – o ai social, dove è conosciuto come cyberbullismo. Dare pareri sconvenienti e non richiesti sembra ormai divenuta quotidianità: dietro a uno schermo, luogo in cui oggi si passa la maggior parte del tempo, i cosiddetti “leoni da tastiera” giudicano chiunque passi a tiro sotto i loro occhi e, nascosti spesso e volentieri da un nickname e forgiati dalla forza che solo l’invisibilità può dare, non risparmiano nessuno. L’intento è stigmatizzare ciò che si ritiene imperfetto, renderlo palese agli occhi di chiunque e ridicolizzare, dunque, una persona tanto da farla sentire sbagliata.

È, tuttavia, da sottolineare il fatto che sovente ci si ritrova a essere fautori inconsapevoli di body shaming. Non è un fenomeno prettamente mediatico: difatti, un commento fatto in famiglia, a scuola o nel posto di lavoro che potrebbe risultare banale per qualcuno, potrebbe ferire l’altro, portando dietro sé, a volte, conseguenze non indifferenti. Non sono rari i casi di depressione, bulimia, anoressia, autolesionismo fino ad arrivare, purtroppo, al suicidio in soggetti più deboli che hanno bisogno di continue rassicurazioni riguardo il loro fisico per accettarsi ed essere certi di essere accettati.

Far provare vergogna e vergognarsi del proprio corpo sino a estremi epiloghi non sono altro che le conseguenze di una evoluzione-involuzione: se la società, per certi versi e in certi ambiti, ha compiuto passi da gigante, per altri ha subito un blocco o, peggio ancora, una regressione. Vittime inconsapevoli di una tacita dittatura per immagini, il body shaming diventa quasi un comportamento appreso: si ragiona per stereotipi, per luoghi comuni e sillogismi ormai facenti parte del “bagaglio culturale” collettivo (es. la persona in carne lo è perché è pigra e non si allena).

Indottrinamenti errati, però, a favore di una bellezza in serie, di una concezione del corpo in cui a vigere non è la particolarità di ognuno che rende unici, ma l’omologazione da replicanti con cui ci si confronta ogni giorno, con cui ci si autovaluta e il più delle volte ci si sente in difetto.

Tuttavia esiste l’altra faccia della medaglia, in primis nel web stesso: medium per antonomasia attraverso il quale il body shaming ha avuto il suo exploit, la Rete accoglie anche quella fetta di utenza che combatte contro questa stupida e immotivata pratica di bullismo a favore di una piena accettazione di sé e di rispetto nei confronti dell’altro.

Ecco dunque hashtag che inneggiano all’amore per se stessi e per quelle imperfezioni che rendono speciali e unici – e dalle quali non sono esenti neanche coloro che le criticano aspramente! –, contribuendo così alla nascita del movimento del body positivity in contrapposizione alla negatività di cui il web, molto spesso, si nutre.

Abbiamo parlato di una tacita dittatura per immagini. Ma se, da un lato, le immagini suggeriscono uno standard errato di perfezione dall’altro, invece, le stesse possono avere il potere di sottolineare come le imperfezioni di cui madre natura ci ha dotati possono e devono farci sentire a nostro agio poiché ci mostrano umani.

Gli artisti si sentono in dovere di rappresentare il fenomeno sociale al fine di una sperata riflessione e sensibilizzazione collettiva. Molti sono i progetti fotografici realizzati da artisti che incoraggiano il concetto di “body positivity”, come per esempio quello della giovane Lotte Van Raalte.

Degna di riflessione è, infatti, la raccolta di foto Body che ha scattato a 46 donne, dai 13 ai 94 anni, sconosciute, amiche e familiari. Attraverso le foto, dapprima postate sulla sua pagina Instagram, Van Raalte ha voluto esplorare il corpo femminile nella sua verità tra cicatrici, smagliature, rughe. La combinazione di dettagli naturali e inevitabili hanno ridato all’osservatore un’immagine genuina della donna, troppe volte ridotta al mero cliché di “oggetto del desiderio”.

body shaming arte

Ironica, tuttavia, la segnalazione del suo account personale per “contenuti espliciti”. Ironia o, per meglio dire, incoerenza: inutile suggerire un breve tour tra le pagine di Instagram per rendersi conto che i contenuti espliciti sono ben altro rispetto alle foto da lei scattate e postate, come quella di una pancia o la scollatura di una donna di mezza età. Nulla di provocatorio, dunque, nei suoi scatti, ma solo l’estrema realtà. Come una contemporanea Nan Goldin, non ama le pose classiche e statuarie da modella navigata. Van Raalte ama la dinamicità, i sorrisi colti di sorpresa, la naturalezza.

E forse è proprio questo che ha infastidito: il confronto con un corpo reale che invecchia e che mostra i suoi difetti. Un corpo non edulcorato da luci gentili o soffuse o da programmi di ritocco. Ed è esplicito, perché impressiona. Infastidisce, forse, come l’autostima o il sentirsi a proprio agio in un corpo considerato imperfetto, abbiano un impatto così forte e sprigionino una tale potenza.

Erroneamente, si pensa che a essere vittime di body shaming siano solo le donne: è vero, la percentuale maggiore è in rosa ma gli uomini non ne sono esenti. Lo racconta con le sue foto Brock Elbank, il quale dedica a ogni peculiarità corporea, considerata dai più un difetto, una raccolta fotografica.

Indistintamente protagonisti uomini e donne, tra queste foto vi sono #Freakles, ovvero le lentiggini, da Elbank amate da sempre, in contrapposizione alla mal sopportazione dei soggetti fotografati, i quali vedevano in questo il motivo del bullismo che subivano; #Vitiligo, serie che immortala soggetti affetti da vitiligine, da cui riesce a trarre e ritrarre l’orgoglio e la spensieratezza con le quali si mostrano alla camera, come se questa infondesse loro una profonda dose di fiducia in se stesse; e infine la serie How do you C Me Now? in cui “C.M.N.” non è altro che la sigla del Nevo Melanocitico Congenito Gigante, una rara condizione cutanea dalla quale sono affetti i protagonisti degli scatti.

Anche in questo caso ai nostri occhi appaiono persone fiere, sorridenti, naturalmente rilassate. L’idea alla base di queste serie fotografiche è quello di trasmettere non solo il classico messaggio di amarsi e accettarsi per come si è ma anche di mostrare a coloro che stanno dall’altra parte, e che sovente hanno puntato il dito, quanto siano davvero incredibili le persone nella loro unicità riuscendo, così, a trasformare ciò che è diverso in straordinario.

body shaming brock elbank

La giovane artista Haley Morris Cafiero, invece, diventa essa stessa protagonista della sua serie fotografica Wait Watchers: in sovrappeso e accortasi casualmente degli sguardi altrui che la attraversavano, ha deciso di far divenire questa insolita “combo”, arte. Un corpo considerato al di fuori degli schemi imposti che vive tranquillamente la sua quotidianità, vittima però di occhiate estranee, ricche di disprezzo, stupore o ilarità. Si tratta di una raccolta fotografica piuttosto forte che pone dinanzi a una realtà sensibile, immortalata, ferma nel tempo giusto per concedere una profonda riflessione sulla superficialità di questa odierna società e per invitarci, anche, a fare molto spesso i conti con noi stessi.

Gli artisti grazie ai loro taciti ma potenti mezzi di comunicazione sono, ancora una volta, riusciti a indurci a una riflessione, dandoci una lezione: ci hanno immersi nella realtà in cui viviamo, ce l’hanno schiaffata in faccia. Ci hanno mostrato che ciò che noi identifichiamo come diversità nell’altro, può essere vissuta dalla controparte con agio e naturalezza, poiché ha imparato ad amarsi. Potrebbe essere semplice anche per noi se solo ci spogliassimo delle apparenze e vivessimo intrisi di positività, lasciando la critica e il disprezzo a ciò che lo merita sul serio. D’altro canto, la perfezione non esiste: esiste la bellezza dell’imperfezione.


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