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Taiwan, la provincia ribelle

Da sempre considerato il nodo di Gordio della Cina, le sorti di Taiwan sono oggi più che mai incerte. L’isola di Formosa e la terra del Dragone propongono “due versioni concorrenti della medesima identità nazionale cinese”.


All’indomani dell’invasione russa in Ucraina il Ministero della difesa di Taiwan annuncia l’incursione di nove aerei cinesi nel suo spazio aereo, aumentando così il livello di allerta. Dal canto suo, la Cina non ha mai negato la sua volontà di riportare Taiwan sotto il suo controllo e, a tal proposito, condanna ogni dimostrazione di sostegno da parte di Washington, sollecitando gli americani a non interferire.

Curioso anche l’atteggiamento della terra del Dragone nei confronti del Cremlino, che cerca di mantenere una posizione neutrale per salvaguardare i suoi legami con Russia e Europa anche se, negli ultimi riscontri, si è detta disponibile a mediare tra le due parti, ricercando una soluzione pacifica ma condannando le sanzioni occidentali nei confronti di Mosca. Che sia un pretesto per evitare interferenze nella questione della “provincia ribelle”? O forse la Cina sta solo cercando un precedente per poter giustificare la sua possibile futura azione nei confronti di Taiwan? 

Il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, si è subito preoccupato di spiegare come paragonare la situazione in Ucraina al caso Taiwan sia un errore, trattandosi di questione interna, poiché Pechino considera Taiwan «una parte inalienabile del territorio cinese» e non una disputa tra due Paesi, come nel caso di Ucraina e Russia. Wang ha inoltre sottolineato come i legami con Mosca siano «solidi come una roccia» e che entrambi condividono grandi aspettative collaborative. La Cina intrattiene anche ottime relazioni con l’Ucraina, con la quale nel 1992 ha stretto relazioni diplomatiche che hanno portato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, a proporre il suo Paese come “ponte verso l’Europa” per le aziende cinesi. 

Esistono dei punti d’incontro tra Taiwan e Ucraina? Emily Holland, Assistant Professor presso il Russia Maritime Studies Institute dell’’US Naval War College, nel suo articolo Ukraine and Taiwan: Small powers in the shadow of great power rivalries, pone a confronto i due casi sottolineando come Ucraina e Taiwan siano due democrazie che condividono lunghe e complicate relazioni con le loro vicine superpotenze.

«Sebbene Taiwan non si trovi in una posizione geografica a cavallo tra oriente e occidente, il suo fermo impegno per la democrazia e le sue strette relazioni con gli USA, la collocano in un ambiente geopolitico meno sicuro» e «sebbene l’Ucraina sia una democrazia in gran parte disfunzionale ed estremamente instabile, mentre Taiwan è vivace e stabile, la presenza di un governo democratico e della libertà elettorale è preoccupante per gli stati autoritari che cercano di isolare i loro regimi». Da ciò si evince che «sia la Russia sia la Cina sono attente a salvaguardare i propri interessi contro l’ingombrante potere della democrazia». 

Ma quali sono le lezioni che Taiwan potrebbe trarre dalla situazione in Ucraina? Innanzitutto, il “mantenimento dell’unità interna”: secondo Emily Holland, l’Ucraina non godeva dell’unanimità politica verso l’Occidente. Questo ha causato instabilità all’interno del sistema politico, che ha portato alla situazione attuale.

In secondo luogo, Taiwan non deve aspettarsi una risposta occidentale unificata poiché, nel caso di un attacco cinese, è probabile che gli europei non condannino il comportamento di Beijing, come dimostra il caso ucraino in cui gli europei si sono dimostrati restii «all’intervento diretto e alle dure sanzioni da parte delle potenti lobby economiche europee». E se è vero che il nemico del mio nemico è mio amico, Taiwan non dovrebbe aver dubbi sulla difesa degli USA, sancita dal Taiwan Relations Act del 1979, anche se la fiducia di un loro intervento è scesa dal 55% al 43%, come sottolinea The Economist.

La presidenza Biden ha comunque ribadito in occasioni ufficiali quali il G7, agli incontri bilaterali tra Washington e Seul e ai vertici tra Giappone e Australia, come la sicurezza di Taiwan sia una questione internazionale di alta importanza. Inoltre, Taiwan godrebbe della protezione del patto “Aukus” – acronimo inglese che sta ad indicare le tre nazioni firmatarie, Australia, Regno Unito e Stati Uniti – del 15 settembre 2021, che si propone di limitare l’influenza cinese nell’area indo-pacifico. 

Il caso ucraino mostra quanto «possa essere devastante una guerra contro la Cina e perché il pubblico taiwanese non dovrebbe sostenere azioni contro la Cina». Quest’ultima sta attuando una narrativa secondo la quale «Taiwan non dovrebbe essere una pedina per gli sforzi degli Stati Uniti per contrastare la Cina», scrive Foreign Policy.


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Taiwan tra ieri e oggi 

Taiwan, denominata dai Portoghesi intorno al XVI secolo “Ihla formosa”, cioè “la bella”, è l’ultimo tassello mancante per completare la riunificazione cinese.

Le ragioni delle attuali tensioni con la Cina sono da ricercarsi all’indomani del secondo conflitto mondiale, quando il governo del Partito Nazionalista cinese, Il Kuomintang (KMT), dopo aver perso la guerra civile contro il partito comunista di Mao Zedong, nel 1949 decise di rifugiarsi a Taiwan, sperando di riconquistare il controllo di tutto il territorio. Il governo, stabilitosi a Taipei, venne riconosciuto come il legittimo rappresentante di tutta la Cina e, sostenuto da Washington, riuscì a conquistarsi il seggio alle Nazioni Unite. 

Pechino invece, sostenuta dall’Unione Sovietica e da altri Stati socialisti, riteneva che il governo di Chiang Kai-Shek, non esercitando nessun controllo effettivo sul territorio cinese, non dovesse occupare il seggio alle Nazioni unite. Pertanto, a partire dal 1950, le numerose richieste da parte di Pechino per l’ammissione della Repubblica Popolare Cinese alle Nazioni Unite vennero respinte fino a quando l’entrata degli Stati del Terzo Mondo alle Nazioni Unite favorevoli a Pechino e la guerra di Corea portarono la Repubblica di Cina a perdere il suo seggio a favore della Repubblica Popolare Cinese nel 1979. 

Da qui, iniziò lo scontro tra le “due Cine”: il Partito comunista cinese e il KMT (partito nazionalista) per anni si scontrarono sulla legittimità politica di rappresentare il popolo cinese, scontro che ancora oggi causa forti tensioni non solo all’interno dello stretto ma anche a livello internazionale.

Dagli anni ’80, si diede il via alla democratizzazione del Paese e l’allora presidente cinese, Deng Xiaoping, propose un accordo politico basato su di una unificazione pacifica, nota come “Uno Stato, Due sistemi”, che Taiwan rifiutò conquistandosi il nomignolo di “provincia ribelle”.

L’attuale presidente cinese Xi Jinping, a fronte del rimpatrio di Macao e Hong Kong, ha posto la riconquista della “provincia ribelle” come l’ultimo ostacolo alla creazione della “Grande Cina”, da ottenere con ogni mezzo possibile, riproponendo il modello “Uno Stato, Due Sistemi” (secondo cui Taiwan accetterebbe la sovranità della Cina continentale pur mantenendo i propri sistemi politici e legali) e non escludendo l’opzione della forza. 

Xi si è proposto di raggiungere questo risultato entro il 2050, essendo il centenario della Repubblica Popolare. Di fronte a tali affermazioni la presidente Tsai Ing-wen, eletta nel 2016, ha risposto adottando una politica cauta e responsabile che mira alla sicurezza nazionale e rifiuta il modello “un paese due sistemi”, considerando anche la repressione, da parte di Xi, del movimento per la democrazia ad Hong Kong nell’anno 2020. 

Taiwan preferisce mantenere il suo status attuale, cercando di evitare un possibile attacco da parte di Pechino, circostanza assicurata dagli USA con il Taiwan Relations Act del 1979. Le relazioni con gli USA costituiscono un deterrente che scoraggia Pechino ad attaccare l’isola di Formosa. Ad ogni modo, Washington cerca di evitare la guerra tra i due attori, essendo soddisfatto dello status quo di Taiwan, ma stando sempre all’erta, dato che la situazione potrebbe cambiare da un momento all’altro.

Quali sono i possibili scenari per Taiwan?

Il futuro è ancora incerto per l’isola di Formosa. Secondo gli esperti di diritto internazionale, Taiwan, esercitando un potere di controllo su di un proprio territorio con una popolazione stabile, avendo un proprio governo ed essendo in grado di intrattenere relazioni con altri Stati, dispone di tutti i requisiti necessari per essere considerata uno Stato sovrano, che potrebbe far parte di tutte le organizzazioni internazionali. 

La questione, dunque, sembra essere legata a ragioni di tipo politico che le attribuiscono una “entità sui generis”. Mantenendo la sua posizione, Taiwan proseguirebbe con il suo ruolo senza la possibilità di essere coinvolta nelle organizzazioni internazionali.

Affermando la sua indipendenza e rompendo ogni legame con la Cina, conquisterebbe la sua piena soggettività ma dovrebbe prepararsi a una possibile risposta da parte di Pechino che, da sempre, persegue in principio dell’ “unica Cina”, ovvero il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese come l’unico governo legittimo che rappresenta l’intera Cina; Taiwan è parte integrante del territorio cinese e Pechino ha sempre dichiarato di essere disposto a tutto, anche all’uso della forza.

L’obiettivo di Xi Jinping è quello di eliminare ogni tipo di interferenza estera nella questione di Taiwan; in particolar modo, mira a eliminare ogni tipo di coinvolgimento da parte degli USA, cercando di sviluppare «relazioni politiche tra la Cina continentale e Taiwan, basate su una solida base economica».

Il Presidente della terra del Dragone include la riannessione di Taiwan nel suo sogno cinese, il quale si basa sulla «rivitalizzazione di una grande nazione cinese». Egli sostiene che «fin quando si continuerà a istituzionalizzare il quadro dell’unica Cina nelle relazioni attraverso lo stretto, Taiwan alla fine tornerà alla madrepatria».

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Flavia Caruso

Studentessa di Relazioni Internazionali, su Eco internazionale scrivo di Cina e Indopacifico, con l’obiettivo di accorciare le distanze tra oriente e occidente.