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Biden in Europa, l’America è tornata?

Alla fine del viaggio di Biden in Europa restano le incertezze sulla capacità dell’America di unire l’Occidente per conservare l’egemonia a livello globale. 


Si conclude oggi il viaggio di Biden in Europa, iniziato con la riunione del G7 in Cornovaglia, proseguito con i summit Nato e con i vertici delle istituzioni europee a Bruxelles e finito con l’incontro con Vladimir Putin a Ginevra. Una settimana all’insegna della diplomazia che, almeno sulla carta, segna una rottura rispetto alla precedente amministrazione Trump e al suo unilateralismo.

“L’America è tornata”: dopo quattro anni in cui l’imprevedibilità ha costituito la cifra della politica estera americana, Joe Biden ha mostrato al mondo intero che gli Stati Uniti vogliono tornare al multilateralismo per affrontare le nuove sfide del prossimo decennio.

Quale sia la sfida più importante per gli Stati Uniti è palese. Sia leggendo il comunicato conclusivo del G7 che quello del summit Nato, il paese che viene nominato più spesso che in passato è la Cina. È la prima volta che in entrambe le sedi si parla apertamente della Cina come una minaccia, della quale si denunciano le pratiche contrarie ai diritti umani (contro la minoranza degli Uiguri nello Xinjiang e ad Hong Kong), il pericolo rappresentato dalle manovre militari nel Mar Cinese Meridionale e le opacità sulla possibile origine del coronavirus in Cina

Sebbene l’enfasi sia leggermente diversa tra i due comunicati – trattandosi di due istituzioni sovranazionali differenti – la sostanza della critica non cambia. In particolare, il summit Nato ha sottolineato più volte l’altra minaccia per il blocco atlantico, rappresentata dalla Russia. Per il resto, il tono (e in fondo il senso) degli incontri registrano la volontà degli Stati Uniti di tornare al centro della scena globale, attraverso impegni e promesse inedite e ambiziose.

Oltre all’impegno per la donazione di un miliardo di dosi di vaccini anti covid e al richiamo (immancabile) alla difesa dei valori liberali e democratici, i paesi del G7 hanno approvato la proposta americana del “Build Back Better World”: un progetto di investimenti nelle infrastrutture dei paesi a medio e basso reddito che costituisce una risposta al progetto cinese della Belt and Road Initiative (o “Nuova Via della Seta”).

Al momento, oltre agli impegni e alle promesse (encomiabili), c’è poco altro. Il processo di ricostruzione dell’egemonia globale degli Stati Uniti è all’inizio. Tuttavia, non è detto che le intenzioni dell’amministrazione americana si tradurranno in risultati concreti nel prossimo futuro. In altre parole, non basta di certo una settimana di summit diplomatici per potere affermare con certezza che il vento è cambiato e che l’America tornerà al suo posto.

Le contraddizioni riguardano tre piani: i rapporti economici con la Cina, la politica interna degli Stati Uniti le questioni strategiche e militari,.

Al netto delle dichiarazioni di principio sull’incompatibilità tra democrazia e autocrazia, i rapporti commerciali con il dragone asiatico non cambiano dall’oggi al domani. Sebbene l’accordo tra l’Unione Europea e Cina sia al momento congelato e le tensioni geopolitiche siano tutt’altro che secondarie, la rivalità strategica va di pari passo con relazioni economiche ormai consolidate.

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Basti pensare che nel 2020 la Cina è diventata il primo partner commerciale dell’Unione e che solo in questa prima metà dell’anno, le esportazioni e le importazioni della Cina con l’UE sono aumentate del 38,7 per cento. Nello stesso periodo, il commercio della Cina con la Germania ha registrato un aumento del 35,7 per cento, mentre quello con la Francia è cresciuto del 43,9 per cento. Se nelle sedi diplomatiche ufficiali i paesi europei fanno fronte comune con gli Stati Uniti dal punto di visto ideologico, nei fatti i rapporti economici con la Cina non vengono messi in dubbio.

Un esempio sono le dichiarazioni di Mario Draghi, che a margine del G7 si è pronunciato anche sulla partecipazione dell’Italia alla Belt and Road Initiative. Contrariamente alle impressioni di alcuni commentatori, Draghi non ha annunciato un addio dell’Italia alla Nuova Via della Seta, bensì l’intenzione di “esaminare con attenzione” l’atto di adesione. La Germania, dal suo canto, starebbe addirittura negoziando l’ingresso di Pechino nel terminal portuale di Amburgo, il terzo scalo europeo. 

Per riassumere con le parole della Merkel, pronunciate dopo il Consiglio europeo di marzo: “con gli Usa abbiamo valori di base comuni, questo è indiscutibile”, ma in Europa “abbiamo anche i nostri interessi”. Interessi che non sempre coincidono, non solo all’interno della cornice europea ma anche e soprattutto rispetto agli Stati Uniti.

È vero che questi ultimi non vedono più l’Europa come un nemico – come ai tempi di Trump – e che alcune divergenze sono state messe da parte: basti pensare all’accordo annunciato ieri sul caso Airbus-Boeing, al via libera al gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2 o ancora al fatto che la discussione sulla sospensione dei brevetti sui vaccini anti covid sia stata accantonata. Tuttavia, è ancora presto per dire se le mosse degli Stati Uniti basteranno a ricalibrare il baricentro delle relazioni economiche e politiche dell’Europa.

Occorre infatti tenere a mente che, al di là dei facili entusiasmi degli atlantisti della prima ora, c’è una variabile che non va data per scontata: gli Stati Uniti sono un paese diviso e Trump (e il trumpismo) resistono. Non solo è ancora vivo il ricordo dell’assalto al congresso del 6 gennaio – con le indagini che non hanno ancora chiarito la reale dinamica dei fatti né le responsabilità dell’attacco – ma sia il partito repubblicano sia la sua base elettorale sono ancora legati a quella fase politica. 

L’Europa non può essere sicura che alle prossime elezioni non possa vincere di nuovo Trump, trascinando nuovamente le relazioni politiche con l’America nella stessa instabilità degli ultimi quattro anni e vanificando inevitabilmente gli sforzi diplomatici di Biden.

Da qui arriviamo all’ultimo punto della discussione: le questioni strategiche e militari. In sede Nato è stata delineata in modo palese la rivalità con la Cina e (soprattutto) con la Russia. Il summit tra Biden e Putin si svolge mentre, per stessa ammissione di Putin, i rapporti tra le due potenze sono al loro minimo storico. Tuttavia, nella prospettiva della Nato la Russia rimane un soggetto geopolitico da contenere, non un rivale paragonabile all’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda.

L’impressione della Cina è che quella mentalità da guerra fredda sia adesso il modo in cui i paesi occidentali intendono rapportarsi con il nuovo “rivale strategico”. Al di là delle critiche prevedibili da parte del gigante asiatico nei confronti dell’Occidente, espresse sarcasticamente attraverso una vignetta pubblicata sul Global Times, nel comunicato delle autorità diplomatiche cinesi alla fine del vertice del G7 c’è un elemento che non può essere ignorato.

«Il budget della difesa cinese nel 2021 è di 1,35 trilioni di RMB (circa 209 miliardi di dollari). Questo è solo l’1,3% del suo PIL, anche meno del 2% minimo della NATO. Al contrario, la spesa militare totale di 30 Stati membri della NATO dovrebbe raggiungere 1,17 trilioni di dollari nel 2021, più della metà della spesa militare totale globale e 5,6 volte quella della Cina. (…) Secondo i think tank di Svezia e Stati Uniti, gli stati membri della NATO hanno quasi 20 volte più testate nucleari della Cina».

Di fronte a questi dati e alle contraddizioni della politica estera degli Stati Uniti degli ultimi vent’anni – dalla guerra in Afghanistan e Iraq alla crisi in Libia a in Siria – è lecito chiedersi in quali termini vada inquadrata la “rivalità strategica” con la Cina. Nella conferenza stampa seguita al G7, Emmanuel Macron ha espresso in modo felpato alcuni dubbi attorno alla questione. 

«Chi è il nemico? Ogni potere, ogni attore che vuole danneggiare l’integrità territoriale dei membri dell’alleanza, che minaccia la sicurezza dei membri dell’alleanza. Per me, questo è il nemico. E così, oggi, se una potenza regionale volesse minacciare l’integrità territoriale di uno dei membri dell’alleanza, sarebbe il nemico. Quindi dobbiamo preparare, nei nostri piani, modi e mezzi per proteggerci di fronte a ciò». A tal proposito, Macron cita il terrorismo islamico ma non cita la Cina. 

Infine, la seconda questione ineludibile nella risposta a questa domanda sta in un elemento spesso ignorato: la visione cinese dell’ordine internazionale. La Cina, a differenza degli Stati Uniti, non crede in un modello universale qual è quello liberal democratico dell’Occidente: piuttosto, il concetto cardine della visione cinese è quello di Tianxia, fondato su sovranità nazionale e sul rifiuto di una cornice di valori uguali per tutti.

In che modo, dunque, va pensata la rivalità strategica con la Cina? Siamo di fronte a una potenza economica che necessariamente finirà per tradursi in potenza geopolitica globale? Oppure la rivalità degli Stati Uniti con la Cina è un tentativo da parte dei primi di conservare con tutti i mezzi disponibili l’egemonia globale?


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