Disinformazione e polarizzazione, come godiamo nell’autodistruzione

La disinformazione è un concetto che coinvolge molti fattori, alcuni molto più profondi della superficie malsana che identifichiamo nelle piattaforme social.


Ben prima che i vaccini entrassero in gioco nella lotta contro la pandemia da Covid-19, molti esperti sia della comunicazione che in campo medico avevano rivolto l’attenzione a una possibile complicazione delle campagne vaccinali: mantenere l’ordine nel momento in cui sarebbe stato disponibile un vaccino e non trasformare le campagne in degli “assalti al treno”. Non a caso, nei primi momenti che hanno contraddistinto l’organizzazione delle vaccinazioni, si è parlato molto di code priority per ottenere il vaccino contro il nuovo coronavirus. 

Un problema ancora più grande, però, ha quasi mandato in fumo un’operazione globale, in particolar modo – per il privilegio del dubbio – in Occidente: la disinformazione, un concetto che, in realtà, coinvolge molti fattori anche più profondi dalle piattaforme social alle quali siamo abituati ad attribuire il “sabotaggio” della razionalità umana.

In oltre due anni dall’inizio dell’incubo pandemico, ci siamo resi conto, approfondimento dopo approfondimento, talk dopo talk, che è generalmente crollata la capacità di convincere le persone che il vaccino serve a salvare molte vite. Molti esperti sono convinti che questo catastrofico fallimento della comunicazione sia imputabile principalmente ai social network e al loro potere di diffondere informazioni false, in un massiccio fenomeno di disinformazione, che si tratti di quella diffusa inavvertitamente o di quella attentamente progettata.

Gli uccellini continueranno a strillare

Carl Bergstrom, biologo evoluzionista presso l’Università di Washington che ha studiato l’evoluzione della cooperazione e della comunicazione negli animali, afferma che «la disinformazione ha raggiunto proporzioni di crisi», sottolineando come questa rappresenti «un rischio per la pace internazionale, interferendo con il processo decisionale democratico, mettendo in pericolo il benessere del pianeta e minacciando la salute pubblica». Per questo motivo ha caldeggiato lo sviluppo di studi specialistici sui fenomeni collegati alla disinformazione, esattamente come avviene per altre grandi crisi – basti pensare a quella climatica – che necessitano sempre maggiore attenzione.

Un esempio calzante, citando lo stesso Bergstrom, è quello che accade in natura, dove «le bugie sono costose». Lo studioso parla di una sorta di “accattonaggio” che rende vulnerabili gli uccellini, esposti ai predatori: «se sei solo una palla di carne indifesa seduta in un nido e non puoi andare da nessuna parte, urlare a squarciagola è incredibilmente stupido», dice Bergstrom. Per gli uccellini sui social, però, certe ripercussioni tardano ad arrivare. I bugiardi (o gli incauti) hanno pochi incentivi a non strillare.

È solo la perversa evoluzione umana?

Le piattaforme social che utilizziamo tutti i giorni fanno parte della nostra naturale evoluzione. Queste, banalmente, si nutrono del bisogno dell’umanità di approvazione sociale e di “chiacchiere”, e sfruttano la sete di contatto degli umani consentendo alle persone di connettersi con un numero enorme di altri individui, più di quanti potrebbero incontrare in dieci vite (passate).

A differenza di alcuni beni oggetto di largo consumo che, in quantità eccessiva, possono letteralmente far ammalare una popolazione – prodotti zuccherati o gli stessi farmaci – i social network riescono a cambiare costantemente “la propria formula”, i propri algoritmi, per continuare a tenere alto il coinvolgimento degli utenti. Senza esagerare, possiamo affermare che le grandi aziende che sono in possesso di moltissimi dati su altrettanti utenti, portano avanti veri e propri esperimenti psicologici su larga scala e in tempo reale.

E proprio come accade nei capannelli di persone intorno alle risse, dove il cuore della baraonda è la piattaforma social, il continuo raggruppamento e il collegamento di idee e individui anche da molto lontano – a maggior ragione quando i “pochi” dispersi nel mondo si ritrovano insieme e in tanti – alimenta la naturale propensione umana a una specifica partecipazione. Zeynep Tufekci, sociologo della Columbia University, afferma che «la connessione sociale promuove la polarizzazione e il tribalismo, nonché l’esagerazione e la disinformazione». E non c’è ambiente più produttivo e confortevole che la propria percepita comunità, la squadra a cui si tiene ideologicamente.

Un esempio abbastanza banale che rende chiaro il fenomeno: nel mondo fisico, tra gli scienziati ma non solo, sarebbe quasi impossibile incontrare un’altra persona che sostiene che il mondo sia piatto ma, online, per chiunque è possibile entrare in contatto con l’altro zero virgola (e molti zeri) per cento di persone che sostengono questa convinzione. Così si rende possibile raggiungere un’impressione sufficientemente affidabile che si tratti di un’idea molto condivisa.

Una polarizzazione “frustrante”

Essere consapevoli di questo problema non è comunque l’antidoto per risolverlo. Significa solamente che la crisi è in atto e che stiamo cercando, goffamente, di trovare la chiave per combattere la polarizzazione. D’altronde, succede a chiunque di uscire stanchi, frustrati o arrabbiati da una discussione accesa avuta su un silos di commenti a un post. Anche ai più attenti nel mantenere una specie di “atteggiamento zen”.

Quel «tribalismo» sui social di cui parla Tufekci è costantemente alimentato dagli algoritmi di cui sono in possesso le piattaforme. Non c’è controllo che tenga poiché le notizie false, le fake news, continuano a diffondersi in modo più efficace, più velocemente e più in profondità della verità. Alle volte al punto da partire direttamente da centri di potere, in uno spettacolo orrendo come la “guerra di propaganda” che si sta facendo su un fatto accertato ed evidente come il massacro di Bucha durante l’invasione della Russia in Ucraina. Il motivo di tanta efficacia? Il pubblico cerca la novità, la realtà nascosta, le dietrologie, e le storie false sono probabilmente più nuove, più interessanti.

Gli studi condotti su “campioni” nel marasma dell’informazione che gira sulle piattaforme social non possono mettere bene a fuoco il dramma sociale. Le persone, normalmente, sono esposte a diverse espressioni della disinformazione che vanno dalle discussioni con gli amici, alle convinzioni familiari o di altre persone di cui si fidano, riferimenti ideologici e nuovi guru pronti a guidare quegli zero virgola che riescono successivamente a ritrovarsi insieme e, senza dubbio, più forti di prima, almeno percettivamente.

Disinformazione: colpe (vere o presunte) e approcci risolutivi

Esiste una stretta correlazione tra disinformazione e polarizzazione, così come ne esiste una altrettanto forte tra comportamenti collettivi e la logica iperconnettiva delle piattaforme social. Ma le malattie più gravi della società sono quel sistema politico e quel clima sociale che premiano questa corsa all’esagerazione, alla raccolta di consenso ad alti livelli su basi feroci e impietose. 

E se non viene identificato il problema nei professionisti della politica? Forse è colpa nostra. È possibile che anche il semplice deficit del pubblico, quando le persone che condividono le informazioni non si premurano di controllarne la veridicità, sia un fattore altrettanto cruciale nel peggioramento delle conoscenze circolanti e del clima in generale. Per questo motivo sono nati due approcci che tendono a dare del “tempo per riflettere” prima di condividere. 

Uno, il nudge (letteralmente una “spintarella”) che mira a rendere difficile condividere sulle piattaforme le informazioni sospette, oltre le azioni punitive – segnalazioni, blocchi temporanei, estromissioni parziali o complete degli utenti – come, ad esempio, lasciare la sola possibilità di copiare i contenuti, invece di lanciare i link a pioggia. L’altro è invece il boostering, sicuramente più dispendioso, improntato al miglioramento delle capacità critiche degli utenti. Si tratterebbe di insegnare alle persone come individuare la disinformazione, applicare la lateral reading, la “lettura laterale”, ovvero verificare le nuove informazioni con le quali ci si confronta cercando, nel frattempo, informazioni esterne e convalidanti.

In tutti i casi, dall’alto o dal basso, la costruzione di un ambiente informativo sano è fondamentale per portare a compimento uno step evolutivo e non involutivo; perché urlare bugie, prima o poi, ci farà divorare dai predatori più temibili, noi stessi.