L’inverno dei Leoni, il secondo romanzo di Stefania Auci sulla Sicilia dei Florio
L’inverno dei Leoni è il romanzo conclusivo della saga sulla famiglia Florio. Tanto viene detto e molto viene taciuto, qui dove l’orgoglio e la dignità sono gli unici superstiti di un grande naufragio. Sullo sfondo Favignana, l’isola che rende completi, il luogo dove ci si sente vivi.
L’Inverno dei Leoni è il secondo romanzo firmato da Stefania Auci, pubblicato nel maggio del 2021 per la Casa editrice Nord. In questo libro c’è tutto: «chi siamo, chi siamo stati e chi saremo» per dirla con le parole di Nadia Terranova.
La narrazione, per mano della professoressa di Trapani, delinea un inverno metaforico e ansante di una delle famiglie che firmano la storia dell’imprenditorialità sicula fra ‘800 e ‘900.
I Florio vogliono lasciarsi alle spalle quel passato di putiari, arrivati nel 1799, da Bagnara Calabra per cercare fortuna a Palermo. Da piano San Giacomo, passando per via dei Materassai iniziano ad intessere la loro ricchezza di commercianti. Nell’aromateria, rabbia e riscatto sociale erano, prima ancora delle loro spezie, i sapori del loro lavoro.
Disprezzati per le loro origini da bagnaroti, invidiati nella loro ascesa e ostacolati da alcuni nel loro avanzare economico, i Florio sanno che non bastano i soldi, è il sangue che conta per elevarsi. «I nobili di Sicilia con il loro sangue arabo, normanno e francese si erano convinti di discendere dagli dei dell’Olimpo e loro. I Florio, a quelle Olimpo dovevano puntare. E così era stato».
Nel 1866 Don Ignazio sposa la baronessa Giovanna d’Ondes Trigona, inaugurando un periodo dal carisma nobiliare seguito dalla sua investitura nel 1883 a senatore del Regno d’Italia.
Ignazio è artefice della metamorfosi della città, consapevole che «i Florio devono guardare sempre oltre l’orizzonte». Egli fa del dovere la sua religione, è pioniere del commercio, dell’arte, padre della Fonderia Oretea inaugurata nel 1889, dove capeggia la frase, coniata da egli stesso, “l’industria domina la forza”. E ancora, la gestione della Navigazione Generale Italiana, le cantine, le tonnare l’esposizione nazionale a Palermo voluta da Florio stesso, nella seconda metà dell’800, richiama migliaia di visitatori. L’obiettivo della kermesse era quello di mette in vetrina i successi e far capire al nord e all’Europa che il sud non è solo sinonimo di pescatori.
L’inverno dei Leoni fa da cornice a figure maschili eccezionali e fragili che si affiancano a donne di altrettanto rango: rinunciatarie, rocce inattaccabili, devote, vivaci e pioniere. È anche la storia degli amori impossibili e di quelli offerti senza chiedere nulla in cambio, dei malesseri che parlano a tavola e che chiamano in causa l’affetto come unico antidoto.
È la storia dei lutti prematuri che fermano il tempo e spaccano i rapporti, demonizzano le parole e fanno squillare certi silenzi divenuti assordanti: il romanzo è un valzer di nomi che hanno reso celebre Palermo, da Giuseppe Damiani Almeyda a Ernesto e Giovan Battista Basile, da Antonino Leto, a Francesco Lojacono. Ci sono i nobili Trabia e Trigona, Carlo Giachery e la famiglia Whitaker.
In questa foga imprenditoriale, il tempo sa fermarsi quando i polmoni inspirano l’aria delle isole Egadi e il piroscafo si ferma a Favignana.
Ignazio si sente completo, quell’isola diventa la sua vera casa lì dove «una parte della sua anima canta con la stessa voce del vento». La luce è invadente ma lo seduce e lo celebra libero, cullandone i desideri. L’odore del mare è differente, figlio di quella combinazione fra origano, sabbia, pesce salato e stoppie: quell’isola lo denuda, Ignazio torna umano, non più stoico freddo e devoto al lavoro.
Sedotto dalla bellezza, Ignazio cede anche a quella della città di Palermo, ne ama le albe dorate che lambiscono la Cala, ispira tutta la bellezza del silenzio mattutino delle strade vuote che costeggiano Piazza Marina e la brezza che risale lungo il Cassaro.
Ma le avvisaglie di un inverno dal tempo indefinito si scorgono già dal matrimonio tra Ignaziddu e Francesca Paola Jacona baronessa di San Giuliano, meglio conosciuta come donna Franca Florio, avvenuto nel 1893. Chiacchierato, spiato, invidiato e soprattutto celebrato non a Palermo, il salotto di Casa Florio, bensì a Livorno.
Ignaziddu, a differenza del padre, ha lo sguardo rivolto all’Europa e un differente attaccamento alla città. Inoltre, egli non sa che la ricchezza può portare guai e fra l’opulenza delle feste volteggiano calunnie, sguardi elusivi, calici empi dei vini più buoni, gioielli, anche quelli faranno la storia.
Nei saloni brulicanti di gente si distingue lei, donna Franca Florio, definita l’Unica da Gabriele D’annunzio. A far da sfondo c’è un’altra lei, Palermo, una città che brilla, danza fra i profumi di pomelie, gelsomini, e zagara, si mostra fra vecchie e nuove costruzioni, i teatri Politeama e Massimo e la kermesse automobilistica, Targa Florio voluta da Vincenzo Florio. I nostri protagonisti, in questa apparente spensieratezza, non sanno cosa, da lì a pochi anni, li avrebbe attesi.
I superstiti del declino di questa famiglia saranno la dignità e l’orgoglio, i gioielli, anche quelli, verranno ceduti, fra di essi le perle, vestite di ricordi felici, di quel passato che torna portandosi il sapore di una maledizioni, sparge sale sulle piaghe del dolore. Siamo al crepuscolo di questa storia che si muove con passo claudicante, la mente annebbiata e la vertigine violenta. Ospite nella sua vecchiaia, un giorno di novembre sulle rive dell’Arenella, Ignaziddu oramai al tramonto della sua vita fa memoria di una certezza «gli altri sono gli altri. Noi siamo i Florio».