La rete del jihadismo che ogni giorno (da anni) massacra l’Africa

I terrorismi islamisti sono tanti, diversi e radicati anche in molti stati dell’Africa settentrionale e a sud del Sahara. Lo scenario delle adesioni terroristiche sotto la bandiera del jihadismo vede da anni un coinvolgimento sempre crescente nel continente africano, peraltro colpito per primo da questo terrorismo.

Va detto che parlare di “islamismo” è riduttivo, poiché questo termine indica la convinzione che l’Islam possa e debba guidare la vita sociale e politica di una popolazione, come accade in diverse realtà mediorientali. “Jihadismo” invece attiene alla Jihad (guerra santa), un termine che in virtù delle sue molteplici interpretazioni si presta alla “lotta interiore” come alla “lotta all’infedele”.

Alcune organizzazioni regionali si stanno impegnando per combatterlo nella sua accezione violenta e organizzata. Su tutti, il corpo antiterrorismo G-5 Sahel, al quale partecipano Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso, creato nel febbraio 2017 per contrastare la crescita dell’estremismo e del traffico di esseri umani nell’area del Sahel, la fascia di territorio dell’Africa sub-sahariana che si estende tra l’Oceano Atlantico e il Mar Rosso.

Fino a dieci anni fa il jihadismo in Africa aveva due riferimenti: Boko Haram e al-Mourabitoun (“Le Sentinelle”), rispettivamente in Nigeria e nel nord del Mali. Oggi il quadro è ben più complesso, fra affiliati ad al Qaeda (“la Base”, una delle prime formazioni del terrorismo islamista) o all’ISIS, tutti gruppi che spesso si appoggiano alle organizzazioni criminali presenti sul territorio per rafforzare la propria identità e portare avanti la propria missione di islamizzazione o la formazione di un unico grande “stato islamico” (Daesh).

Il fondamentalismo estremista di matrice jihadista (il fondamentalismo di per sé non è violento, è solo un approccio religioso molto rigoroso) è riuscito ad attecchire sin dall’inizio degli anni Duemila nell’area subsahariana e successivamente nel Maghreb, approfittando dell’instabilità derivata dalle Primavere arabe. L’operazione di proselitismo adottata da gruppi come l’Isis e al Qaeda ha collezionato seguaci in grosse fette di società rurale, in contesti accomunati da condizioni preesistenti di conflittualità etnica e religiosa, tensione sociale e mancanza di prospettive per generazioni più e meno giovani.

I Paesi africani costretti a misurarsi con il problema del jihadismo – secondo il rapporto di Global Risk Insights – costituiscono un nutrito elenco: Kenya, Mali, Nigeria, Somalia, Camerun, Sudan, Repubblica Centrafricana, Ciad, Eritrea, Etiopia. Più recentemente (come accennato) nel Nord Africa si è registrata l’azione di gruppi terroristici islamisti in Tunisia, Algeria, Libia ed Egitto. Anche a sud dell’Equatore, in Tanzania, dove è presente l’Uamsho (un’associazione di propaganda islamista) sono stati numerosi gli attentati a sfondo politico-religioso.

Nonostante se ne parli poco in Occidente, l’Africa affronta lo scenario terroristico più drammatico, a causa non solo di un aumento dell’operatività ma anche della maggiore aggressività delle formazioni radicali islamiste. Resta difficoltoso fornire una panoramica del tutto completa e accurata dei movimenti poiché, come in tutte le grandi formazioni terroristiche, vi sono delle spaccature e delle alleanze più o meno conclamate.

È possibile distinguere una quantità non indifferente di gruppi islamisti che operano oggi in Africa, molti più localizzati di altri, alcuni dotati di evidenti mire espansionistiche. Partendo dall’Africa settentrionale, emergono i gruppi affiliati ad al Qaeda in Algeria: qui è presente Aqim, (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), una formazione – come si evince dal nome – oggi affiliata ad al Qaeda che deriva da un movimento salafita combattente nato negli anni novanta nell’ambito della guerra civile algerina e con lo scopo di rovesciare il governo per istituire uno stato islamico.

Il suo alleato più vicino, al confine con la Tunisia, è costituito dalla Brigata Okba Ibn Nafaa, che prende il nome direttamente dal leggendario condottiero saudita del VII secolo.

Sempre in Tunisia, oltre a un piccolo distaccamento dell’Isis è presente un gruppo autonomo, stimato in circa un migliaio di militanti e chiamato Ansar al-Shari’a (gli “aiutanti della sharia”), appartenente alla galassia del jihadismo e più precisamente alla corrente del “Takfirismo”. Anche questa deriva terroristica è riconducibile agli avvenimenti algerini dei primi anni Novanta, quando il Gruppo Islamico Armato punì pesantemente coloro che non si erano ribellati al governo militare emanando la condanna di “empietà massima”, takfir. Tale condanna – neanche a dirlo – ha giustificato eccidi non solo in quell’occasione ma anche in altri contesti quali l’occupazione dell’Iraq e la guerra civile siriana.

In Libia e in Egitto operano gruppi terroristici prevalentemente affiliati all’Isis. Nel primo caso troviamo Ansar al-Shari’a, il naturale alleato e distaccamento dell’omonimo gruppo tunisino, ma a diffondersi anno dopo anno è stata la missione dello Stato Islamico (rispettivamente “della Libia”, “dell’Egitto” e “del Sinai”).

Nell’Africa occidentale, fra Mali e Burkina Faso, prosperano molte formazioni affiliate ad al Qaeda: Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin è oggi considerato il distaccamento ufficiale della “Base” in questi territori. Sotto la sua ala protettiva si raccolgono diversi gruppi che insieme hanno compiuto e rivendicato decine di massacri solo negli ultimi tre anni, con diverse migliaia di morti fra civili e forze di polizia. Oltre alla già citata Aqim (ma nella sua espressione subsahariana), sono presenti sul territorio i gruppi di al-Mourabitoun (fondato da Mokhtar Belmokhtar, uno dei “signori della guerra” più influenti del Sahara) e di Ansar Dine (gli “ausiliari della religione”).

Questi ultimi hanno rappresentato uno dei principali movimenti nella Guerra del Mali, affiancandosi alla lotta per l’indipendenza dei tuareg dell’Azawad (territorio ancora conteso) e pretendendo di prendere parte al processo di pace, rimanendo però esclusi. Non manca una massiccia presenza dello Stato Islamico, in due diverse formazioni: lo Stato islamico nel Grande Sahara (ISGS), fondato nel maggio 2015 da Abu Walid al Sahrawi, ex membro di al Mourabitoun; Katiba Salaheddine, fondato da Sultan Ould Badi, ex membro di Aqim e cofondatore di al Mourabitoun.

Addentrandoci nel continente africano, la storia di Boko Haram (“il peccato del modello occidentale”) nello stato federale della Nigeria è molto complessa e per certi aspetti sorprendente. Il nome stesso deriva dall’azione di predicazione di Mohammed Marwa, un fondamentalista originario del Camerun soprannominato Maitatsine, ovvero “colui che maledice”. Marwa si trasferì nel 1945 in Nigeria: qui voleva fondare una società basata sulla sua visione radicale dell’Islam, che rifiutava l’educazione e lo stile di vita occidentale. Nei decenni successivi la setta di Marwa (Yan Tatsine) raccolse sempre più consensi fino a obbligare il governo nigeriano a metterli al bando e reprimerli violentemente.

Negli anni Ottanta morirono molti dei militanti, compreso lo stesso fondatore nel 1982. Sulle ceneri di quel movimento, nel 2002 Mohammed Yusuf fonda Boko Haram, che nasce come organizzazione umanitaria caritatevole di aiuto alle popolazioni di alcuni stati della Nigeria. Dopo l’uccisione di Yusuf durante un’operazione governativa nel 2009, Boko Haram mette in atto la sua prima vera azione organizzata e violenta attaccando la prigione di Bauchi e liberando oltre 700 prigionieri.

Inizia così la missione di islamizzazione della Nigeria dei terroristi di Boko Haram: da quel momento cominciano i sistematici rapimenti di stranieri (occidentali) e una lunga serie di massacri, alcuni tristemente noti, come il massacro di Baga (in cui si stima la morte di centinaia di persone in un solo giorno) e la strage di Dalori (in cui persero la vita 86 civili).

Resta ancora avvolta nel mistero la fine di molte delle 276 studentesse rapite nell’aprile del 2014: dopo la liberazione di alcune di loro e il macabro ritrovamento di altre nel corso degli anni, mancano ancora all’appello 112 ragazze. Nel rapimento di altre 110 studentesse (di età compresa fra gli 11 e i 19 anni) nel febbraio 2018, 5 sono morte durante l’azione criminale, mentre 104 sono state rilasciate, ma nel conto manca ancora una ragazza: l’allora quattordicenne Leah Sharibu, giovane cristiana non convertita all’islam e per questo tuttora trattenuta, fra notizie contrastanti sul suo destino.

Ad oggi l’organizzazione terroristica, appoggiata dallo Stato islamico nell’Africa dell’Ovest, arriva a controllare gli stati federali di Adamawa, Yobe e Borno, compiendo rapimenti e attentati suicidi per mezzo di bambini “allevati” in vere e proprie caserme.

Posizionandoci nel Corno d’Africa troviamo schieramenti riconducibili ad al Qaeda (e purtroppo noti anche alla cronaca italiana) come Al Shabaab in Somalia – che recentemente ha liberato la volontaria italiana Silvia Romano – e gli affiliati in Kenya, Muslim Youth Center, di fatto un centro di reclutamento che porta nuove leve ad Al Shabaab, e Al Muhajiroun, movimento originario di Londra, fondato da Omar Bakri Muhammad, un combattente a cui è stato vietato il rientro nel Regno Unito nel 2005. Molti militanti di quest’ultimo gruppo sono responsabili di diversi attacchi avvenuti proprio nella Capitale britannica.

Al Shabaab, in particolare, si è reso protagonista di moltissimi attacchi che hanno fatto guadagnare taglie statunitensi su molte delle teste del gruppo terroristico. Il gruppo trae la sua origine dalle Corti Islamiche Unite, attive nel 2006 a Mogadiscio e contrapposte al governo federale della Somalia. Le Corti tentarono l’islamizzazione della città e non riuscendoci mantennero il solo controllo politico, salvo poi perdere il confronto bellico col governo provvisorio sostenuto dagli Stati Uniti e sciogliersi successivamente.

Al Shabaab non è altro che il movimento giovanile estremista derivante dall’esperienza delle Corti e che negli anni è diventato un potente gruppo armato in grado di controllare un’ampia zona della Somalia meridionale. Pare che nel 2013 contasse oltre 15 mila guerriglieri.

La scarsità di risorse e la difficoltà di reperire fondi dall’economia agricola del territorio sotto il suo controllo (anche con l’appoggio della pirateria somala) trasforma la missione del gruppo – dal controllo stabile alle azioni veloci diffuse – ma la violenza esplosiva resta la stessa: nel 2015 la strage nel campus universitario a Garissa in Kenya, con la morte di 148 persone, dimostra la sua capacità nelle azioni di guerriglia.

Decine di massacri, fra autobombe, attacchi kamikaze e assalti in alberghi sul Mar Rosso provocano la morte di un numero non precisato di vittime che supera il migliaio. I terroristi di Al Shabaab ricevono però durissime risposte, in particolare raid aerei statunitensi tra il 2017 e il 2019 che distruggono roccaforti e posti di blocco illegali con cui Al Shabaab estorceva denaro ai civili.

Il gruppo è ancora molto attivo: il 17 maggio di quest’anno è avvenuto l’ultimo attentato suicida in cui sono morte almeno quattro persone tra cui il governatore della regione somala del Mudug e le sue tre guardie del corpo. «Il governatore dell’amministrazione apostata nella regione di Mudug è stato ucciso oggi in un’operazione di martirio a Galkayo»: questo il comunicato che annuncia l’avvenuto martirio, l’ennesimo in tutti questi anni di massacri jihadisti in tutta l’Africa.


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