La rivoluzione della Federal Reserve

 
 

L’annuncio sul mutamento della politica monetaria attuato dalla Banca Centrale degli Stati Uniti sottintende un cambio di paradigma importante e significativo.


Per comprendere l’importanza del cambiamento di paradigma sulla politica monetaria attuata dalla Federal Reserve, è fondamentale fare una premessa storica che ne ricalchi l’evoluzione. Nel lontano 1958, uno dei più importanti economisti del ventesimo secolo mise in evidenza la relazione esistente fra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione. Quell’economista era Alban William Phillips e la sua tesi era contenuta nel suo famoso contributo “The relationship between unemployment and the rate of change of money wages in the UK 1861-1957”.

Alla base di questo lavoro vi era l’evidenza – inizialmente dimostrata solo per il Regno Unito, ma poi validata a livello mondiale grazie ad altri grandi economisti, fra i quali Samuelson e Solow – che tasso di inflazione e tasso di disoccupazione si influenzassero reciprocamente. In particolare, a un tasso di inflazione elevato si accompagnava un basso tasso di disoccupazione e viceversa: in sintesi, sarebbe presente un marcato trade-off fra queste due componenti. Questo portò alla creazione del grafico dell’omonima curva ancor oggi studiata nelle aule universitarie. 

Non stupisca a questo punto che, nel pieno dopoguerra, la politica interventista degli Stati si sia basata su tale assunto, uno “scambio” fra inflazione e disoccupazione che, di solito, privilegia uno scenario ad alta inflazione e scarsa disoccupazione. Le banche centrali dei Paesi, quindi, adeguarono a loro volta la loro linea di politica monetaria ricalcandone gli stessi presupposti e la Federal Reserve non fece eccezione. Il suo stesso statuto prevedeva, del resto, come parametri principali per il suo agire, proprio il tasso d’inflazione e il tasso di disoccupazione.

Successivamente, però, la crisi seguita allo shock petrolifero incrinò alla base la teoria di Phillips: l’evidenza di un’inflazione galoppante, accompagnata da una forte esplosione della disoccupazione, metteva in crisi il famoso trade-off e ne minava la credibilità. La teoria venne così in parte abbandonata, salvo continuare a fare proseliti a livello carsico, e iniziò a rafforzarsi un’idea opposta, cioè che inflazione e disoccupazione non avessero legami se non, forse, nel breve periodo.

Un paradigma di questo tipo – sostenuto da quasi tutti i macroeconomisti negli ultimi cinquant’anni e, in particolare, da quelli della scuola monetarista – indicava la necessità di tenere sotto controllo il costo del denaro come unica funzione fondamentale della Banca Centrale. Per costoro, anche qualora un trade-off fra inflazione e disoccupazione fosse presente nel breve periodo, esso risultava comunque un costo insostenibile nel lungo periodo con un peggioramento generale delle condizioni dell’economia e della sua stabilità. Proprio l’affermarsi di questo paradigma e il diffondersi delle idee ordo-liberali tedesche a livello europeo, sono alla base dello Statuto della Banca Centrale Europea (BCE) che tiene in considerazione, per le proprie mosse, soltanto il parametro dell’inflazione.

Le recenti crisi hanno nuovamente incrinato i paradigmi dominanti. L’ossessione inflattiva, figlia degli anni ottanta e novanta del secolo scorso, sembra essere sul viale del tramonto, superata da nuove preoccupazioni, in particolare dai timori di tenuta sociale degli Stati sempre più segnati da emergenti diseguaglianze e da un ascensore sociale sempre più inceppato, oltre che da tassi di disoccupazione spesso a doppia cifra. A rendere ulteriormente meno sostenibile l’ossessione inflattiva è anche la fine del collegamento diretto fra aumento della massa monetaria e inflazione.

Questa è cronaca degli ultimi quindici anni. Le principali Banche centrali mondiali, nel tentativo di schiodare le economie dalle deflazioni in cui ristagnano, hanno pompato una quantità enorme di liquidità, fino a fare concretizzare “chimere” teoriche come il cosiddetto Helicopter Money. Tralasciando il funzionamento di questi strumenti per il recupero economico, l’unica certezza risiede nell’assenza di effetti di tale massa monetaria sull’inflazione. Quest’ultima continua a ristagnare a livello mondiale, è inchiodata in Europa e arretra, addirittura, in alcune aree dell’Eurozona.

Quello che invece sembra essere tornato in voga è il legame alla base della curva di Phillips. Questo legame è stato chiaramente indicato proprio nel discorso del Presidente della Fed, Jerome Powell, durante il simposio tenutosi a Jackson Hole. Nel suo intervento, Powell ha indicato come il target principale della Fed diventerà la riduzione della disoccupazione, anche a scapito di una nuova esplosione dell’inflazione.

Secondo Powell, il legame fra inflazione e disoccupazione esiste ancora oggi, sebbene la curva di Phillips sia meno marcata di quanto accaduto in passato: ecco, quindi, che una forte politica di stimolo all’economia e un rafforzamento del mercato del lavoro avrebbe un impatto contenuto sulla crescita dell’inflazione. Per rafforzare ulteriormente il concetto, la Banca Centrale americana ha variato, all’unanimità, i parametri inflattivi presso cui tendere, che adesso sono del 2% come target medio: quindi, il solo sforamento per un anno di questo valore non comporterà un automatico intervento delle autorità monetarie, salvo peggioramenti repentini della situazione.

La decisione di virare verso una politica centrata sul rafforzamento dell’occupazione è incentivata da altri due fattori. Il primo è la caduta di valore internazionale che il dollaro ha mostrato fin da subito, in particolare nei confronti dell’euro. La differenza di direttrice della politica monetaria fra le due sponde dell’Atlantico tende a far rafforzare l’euro, la cui credibilità ha un forte approccio anti-inflazionistico, e a far indebolire il dollaro, la cui stabilità inflattiva è messa in secondo piano in questo momento. Questo ha provocato e provocherà un afflusso di liquidità verso l’Europa, con un ulteriore rafforzamento della moneta unica europea.

Quella che può sembrare, a prima vista, una buona notizia in realtà non lo è: l’apprezzamento dell’euro rende sì meno care le nostre importazioni ma, al contempo, rende meno vantaggiose le nostre esportazioni. Quello che accadrà è una diminuzione delle stesse verso gli Stati Uniti e un aumento delle nostre importazioni dallo stesso Paese. In questo modo, il Presidente della Fed ha ottenuto un importante vantaggio competitivo degli USA sulla zona euro, con ricadute in termini di miglioramento del mercato del lavoro (in parte avrebbe già iniziato a lavorare nella direzione di un rafforzamento del medesimo). Resta da valutare come la BCE replicherà a questa mossa di dumping valutario, o come si sarebbe chiamata una volta “svalutazione competitiva”.

Il secondo fattore è determinato dalle politiche espansive messe in campo dagli Stati per contrastare gli effetti economici del Covid-19. Queste politiche hanno portato a un forte deterioramento dei conti pubblici nazionali e a una considerevole crescita del debito pubblico e gli Stati Uniti non fanno eccezione al riguardo. Un’inflazione più elevata permetterà di assorbire e gestire meglio questa massa di debito, consentendo di “respirare” al Paese emittente perché, pur essendo il valore nominale del debito immobile, quello reale si erode, avvantaggiando il debitore sul creditore.

Se quest’ultimo appartiene a Istituzioni o a risparmiatori nazionali, potrebbe essere una forma di trasferimento dal settore privato a quello pubblico, ma è notorio come il debito americano sia un bene rifugio internazionale e sia detenuto in quantità importanti dalla Repubblica Popolare Cinese. Il costo di questa nuova linea tenderà, quindi, a scaricarsi più sull’estero che sul risparmio privato americano.

Al netto di quanto raccontato, quella a cui si è assistito a Jackson Hole è una piccola rivoluzione: una linea di politica monetaria consolidata dai tempi del Governatore Paul Volcker (alla guida della Fed dal 1979 al 1987) – e mantenuta in piedi dai suoi successori, Alan Greenspan e Ben Bernanke – è stata accantonata per fare posto a un nuovo paradigma. Gli effetti di questo cambiamento saranno visibili, oltre che nel breve, nel medio-lungo periodo.


 

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