Quando un debito è sostenibile?

 
 

Questa è la domanda dominante in questa fase di esplosione del debito sovrano, a causa delle misure per sostenere l’economia post Covid-19.


Sgombriamo il campo dalle risposte semplicistiche, ci sono una serie di variabili che hanno un impatto sulla sostenibilità del debito di un Paese: essa dipende dalle condizioni dello Stato emittente, dall’indipendenza delle autorità monetarie, dalla valuta di emissione del debito, dalla credibilità del Paese emittente, dalla mobilità dei capitali internazionali. Analizzeremo soltanto alcune di queste variabili in questo articolo, in particolare il rapporto fra sovranità monetaria, indipendenza della Banca Centrale e credibilità della politica monetaria. Contributi futuri potrebbero analizzare altre variabili.

Uno dei maggiori rilievi che vengono sottolineati in questo periodo è come un Paese che disponga di sovranità monetaria, e che abbia una banca centrale non del tutto indipendente nella designazione della linea di politica monetaria, possa permettersi di emettere debito in modo del tutto illimitato. Alla base della questione vi è l’esplosione e la crescita sempre più importante del debito pubblico giapponese che si avvia a larghe falcate alla percentuale monstre del 250% (nelle proiezioni di giugno del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale potrebbe addirittura attestarsi al 268% per la fine di quest’anno) e, nonostante ciò, continua a pagare una cifra ridicola per interessi e, soprattutto, non è soggetta a crisi speculative o a fiammate del differenziale.

La domanda che tutti si fanno è: cosa ha di particolare l’economia giapponese? La risposta è semplice e complicata allo stesso tempo. Innanzitutto, la struttura istituzionale giapponese differisce profondamente da quella europea, in particolare nella struttura e negli obblighi delle autorità monetarie. Diversamente a quanto accaduto negli anni ottanta in Europa, dove gli alti tassi di inflazione obbligavano a cambi di struttura istituzionale, la Bank of Japan ha mantenuto un’architettura e un legame con la politica simile a quello delle banche centrali occidentali del dopoguerra.

Questo significa che le linee di politica economica vengono solitamente concertate fra Ministero del Tesoro, Ministero dell’Economia e Banca Centrale, in modo del tutto naturale. La forte indipendenza della Banca Centrale, sul modello della Bundesbank tedesca, non si è mai affermata in Giappone. Questa condizione ha un importante corollario: la Bank of Japan si comporta esattamente da prestatore di ultima istanza del Ministero del Tesoro giapponese e finanzia, attraverso l’emissione monetaria (volgarmente lo stampare moneta) il deficit, e quindi il debito pubblico emesso e rimasto invenduto sul mercato primario.

L’agire della Banca Centrale da prestatore di ultima istanza permette di “bastonare” l’eventuale speculazione sul mercato. Spieghiamo meglio il modo in cui avviene questo processo. Innanzitutto, bisogna ricordare come il prezzo dei titoli di debito sovrano è costituito dal tasso d’interesse riconosciuto all’eventuale compratore. Come in ogni settore dell’economia, il prezzo è stabilito nell’incontro fra domanda e offerta.

L’aumento del tasso d’interesse altro non sarebbe, quindi, che una sproporzione fra l’offerta, tanta, e la domanda, poca, cui lo Stato deve fare fronte aumentando il prezzo, cercando di invogliare altri compratori. Se però la Banca Centrale Giapponese agisce da compratore per calmierare il prezzo del debito, ecco che il tasso d’interesse non può crescere liberamente, e, superato il livello stabilito, è la Banca Centrale che assorbe l’invenduto stampando (oggi quasi del tutto virtualmente) moneta.

L’architettura istituzionale europea nella gestione della politica monetaria differisce radicalmente dal modello giapponese. Alla base del modello europeo, vi è la fiammata inflazionistica figlia dello Shock Petrolifero del 1973 e le strategie adottate per uscire da questa condizione. Alla base della reazione vi era la teoria che l’inflazione fosse determinata dalla massa monetaria creata per fare fronte all’acquisto dell’invenduto della Banca d’Italia. Questa visione era figlia di una delle interpretazioni della Teoria quantitativa della moneta, ove il livello generale dei prezzi è direttamente collegato alla quantità di moneta presente nel sistema.

Per spezzare la spirale inflazionistica era quindi ritenuto necessario agire per arrestare la funzione di prestatore di ultima istanza della Banca d’Italia, cosa che avvenne col famigerato “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia verificatosi nel 1981, e contestualmente garantire una totale indipendenza alla Banca Centrale nelle decisioni di politica monetaria. In tutta onestà, bisogna ricordare come la separazione fra le due Istituzioni non fu una netta cesura, ma un allentamento che si estese lentamente, ma inesorabilmente, per tutti gli anni novanta. Effettivamente, dopo tale scelta l’inflazione, che aveva sfondato quota 20% nel 1980, si spense lentamente per scendere al 5% verso la fine degli anni novanta e, dopo la fine della “scala mobile” e l’ingresso della moneta unica, non costituì più una minaccia. 

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Dato il successo ottenuto nel combattere l’inflazione, non deve sorprendere come questo modello di autorità monetaria, in tutto simile a quello della Bundesbank tedesca, si sia affermato al momento della creazione del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC), prima, e della Banca Centrale Europea (BCE), dopo. Ciò ha comportato e comporta che la BCE non si comporti da prestatore di ultima istanza, come stabilito dalla no bail-out clause: essa non può, cioè, essere presente come compratore nel mercato primario, lasciando al mercato la determinazione del livello dei prezzi di ogni titolo di debito dei Paesi della zona dell’Euro.

In assenza di un ruolo della Banca Centrale, la credibilità del Paese rimane l’unica chiave per stabilire il prezzo e, quindi, la sostenibilità del suo debito pubblico. Oltre alla credibilità del Paese, conta la credibilità della struttura sovranazionale cui il Paese ha ceduto parte della propria sovranità e dire in modo solenne «within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the Euro. And believe me, it will be enough» è un modo per intimidire i mercati, sottintendendo una funzione da prestatore di ultima istanza che la BCE, anche se soltanto sul mercato secondario, ha effettuato sia sotto la guida di Mario Draghi, sia sotto la guida di Christine Lagarde. 

Le fondamenta teoriche alla base di questo cambio di linea sono probabilmente da rintracciare nel tramonto del legame fra massa monetaria e inflazione (è dubbio se questo legame sia esistito anche negli anni ottanta), come reso plasticamente evidente dall’assenza di effetto sull’inflazione dell’enorme massa di moneta emessa a livello globale da parte di tutte le banche centrali, come dimostrato di recente anche dal cambio di rotta della Federal Reserve. Sembra di sentire ridacchiare dall’alto un famoso economista, J. M. Keynes, che metteva in guardia, nel suo “The end of laissez-faire” nel lontano 1926, dal fatto che «si può portare un cavallo alla fontana, ma non si può obbligarlo a bere». Allo stesso modo, si può emettere oceani di massa monetaria, ma non è detto che questo sia sufficiente a stimolare l’inflazione.

Quello che sta accadendo, quindi, è che nell’eurozona, seppur sotto mentite spoglie e con tutte le cautele del caso dovute alla rigidità dei Paesi nordici e al contenuto dello Statuto, la BCE sta acquisendo una funzionalità tipica a quella delle Banche Centrali dei Paesi del dopoguerra, pur mantenendo una forte indipendenza dal potere politico e giudiziario statuale, come la controversia con la Corte di Karlsruhe tedesca ha evidenziato. Questo non mette al riparo da cambi di linea di politica monetaria, dovuti al modificarsi delle condizioni economiche o delle convinzioni del Direttorio della BCE o a un cambiamento della guida della Banca stessa, salvo una modifica dello Statuto della Banca Centrale e dell’architettura fra politica monetaria e politica fiscale europea. 

Concludendo, il problema della sostenibilità del debito, alla luce di quanto detto, potrebbe essere risolto in due modi: ritraendosi nel quadro degli Stati membri e riacquisendo le prerogative tipiche dello Stato per come era strutturato prima del “divorzio”, oppure approfondendo in un quadro federale le competenze della Banca Centrale Europea, rendendola una banca centrale “normale” con un titolo di debito europeo di riferimento. Quindi, si può risolvere o con meno Europa o con più Europa.

Ovviamente nel primo caso tutto dipenderebbe dalla volontà nazionale e ovviamente dovremmo tenere in considerazione che si dovrà pagare il costo economico e commerciale dell’uscita dall’Unione e non dalla sola Moneta Unica; nel secondo caso, la traiettoria sarebbe quella di una serrata trattativa nella quale ogni Paese dovrebbe rinunciare a qualcosa per il benessere della federazione. Quello che è pericoloso è l’affidarsi alla “bonaccia” dei mercati presente attualmente, nella convinzione che la tempesta è ormai alle spalle: la tempesta è davanti a noi e non basterà guadagnare tempo.  


 

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