Il limbo tra i vivi e i morti: indagando la fotografia post mortem

Una pratica entrata in uso dalla prima metà dell’800 in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, la fotografia post mortem crea non solo una storia straziante legata alla perdita e al distacco con la persona cara, ma anche un vero e proprio capitolo delle prime pratiche fotografiche.


L’epoca vittoriana e il rapporto con la morte

Con la rivoluzione industriale masse di popolazione, spinte dalla promessa di un lavoro e del miglioramento della qualità di vita, si spostarono dalle campagne alle città per lavorare come operai nelle fabbriche, bambini compresi. Queste persone finivano col vivere negli SLUMS, baraccopoli densamente popolate e malsane, prive di qualsiasi servizio igienico di base e invase dai topi. 

All’inizio del XIX secolo, Londra era apparentemente una vivace città commerciale in fase di crescita demografica. Tuttavia, sotto le strade si trovava un’infrastruttura per l’approvvigionamento idrico ancora in gran parte d’epoca medievale composta da tubature in legno. A metà del XIX secolo l’approvvigionamento idrico era migliorato, il che significava non solo garantire un accesso all’acqua potabile, ma anche che i nuovi gabinetti cominciavano a diventare standard nelle abitazioni e i rifiuti venivano riversati nel Tamigi – creando situazioni come The great stink – la grande puzza. La situazione si avvicinò al punto di crisi portando la città ad essere un luogo insalubre ed esponendo la popolazione alle malattie.

Anche la prostituzione faceva la sua parte nel diffondere le malattie, tanto che venne istituito un libro statale per “tenere sotto controllo” le prostitute – ma anche quelle donne della working class che venivano ritenute tali. Non dimentichiamoci l’alta mortalità infantile e femminile (la causa piú comune era il parto).

La upper class non era certo esente da tutto questo, tanto da arrivare a romanticizzarne l’estetica in una maniera paragonabile a quella che trova eco nella figura di Mimí della Boheme (1896) o negli anni ‘90 del Novecento con l’Heroine Chic: magrezza, pelle pallida e le clavicole esposte, una donna dalla figura sottile e fragile, qualcosa di cui gli uomini devono prendersi cura, rimangono un feticcio della moda.

Per questo si può affermare che la morte era onnipresente durante l’epoca vittoriana a causa degli alti tassi di mortalità e della diffusione incontrollata delle malattie come il colera, la tubercolosi, la difterite, le malattie esantematiche (vaiolo, morbillo, scarlattina, varicella, parotite, rosolia), le malattie veneree come la sifilide, il tifo. Senza contare le varie malattie respiratorie causate dal forte inquinamento atmosferico dovuto dalle fabbriche in ascesa.

L’avvento della fotografia classica e fotografia post mortem

La fotografia, ufficialmente presentata come tecnologia presso l’Accademia delle scienze e all’Accademia delle arti visive nel 1839, ebbe un ruolo molto particolare nell’estetica e nella percezione della morte nella società Vittoriana. 

La fotografia post mortem iniziò a farsi strada nel 1839; dal Regno Unito si diffuse in America, Australia e nelle altre colonie all’epoca di proprietà dell’impero Britannico (allargandosi e influenzando anche altri Paesi come la Spagna).

Inizialmente la fotografia si otteneva tramite il dagherrotipo, un’immagine piccola e altamente dettagliata su argento lucido; un lusso costoso ma non tanto quanto un ritratto commissionato ad un artista, che in precedenza era l’unico modo per conservare in modo permanente l’immagine di una persona. 

Mary Warner Marien, nel suo libro Photography and Its Critics: A Cultural History, 1839-1900, afferma che «la fotografia post mortem fiorì nei primi decenni della fotografia tra i mecenati che preferivano catturare un’immagine di una persona cara deceduta piuttosto che nessuna fotografia». Queste immagini sono state ottenute con tempi di esposizione lunghi, privilegiando soprattutto i soggetti deceduti che, a differenza dei loro parenti in vita, risultavano più nitidi e visibili grazie alla loro assenza di movimento.

Come scrive la studiosa di letteratura vittoriana Nancy M. West, «le persone erano più disposte a pagare qualche dollaro per un dagherrotipo che ricordava la morte di una persona cara, piuttosto che per commemorare un matrimonio o una nascita». Il motivo era semplice: la morte era onnipresente e la società aveva bisogno di un modo per affrontare le paure contemporanee. Non a caso a cominciare dalla fine del Settecento e per tutto il regno di Vittoria si vide affermarsi la letteratura gotica, ancora oggi molto apprezzata. 

Per i vittoriani la morte era un fatto della vita e veniva trattata come tale, eppure c’era una forte influenza spiritualista nelle credenze dell’epoca, si veda per esempio l’usanza di coprire con un panno nero gli specchi quando si teneva il morto in casa – si credeva che gli specchi potessero trattenere lo spirito della persona defunta e farla rimanere in casa piú del dovuto. Inoltre, per la prima volta avevano un vero e proprio oggetto-ricordo che poteva essere esposto insieme a oggetti più tradizionali come le ciocche di capelli o come la gioielleria da lutto, che ha acquisito grande popolarità in occasione del lutto della regina Vittoria per la morte del coniuge Alberto.

Con l’aumento del numero di fotografi, il costo dei dagherrotipi diminuì. Negli anni ‘50 dell’Ottocento furono introdotte procedure meno costose, come l’uso di metallo sottile, vetro o carta invece del costoso strato in argento, cosicché ritrarre la morte divenne sempre più di uso popolare.

Spesso era la prima volta che le famiglie decidevano di farsi fotografare ed era l’ultima possibilità di avere un’immagine del parente morto che spesso era un bambino. L’alta mortalità infantile spiega perché molte fotografie post mortem rappresentino bambini o madri con neonati morti in braccio. Con l’avanzare delle scoperte mediche e scientifiche la mortalità infantile e le malattie diminuirono nel corso del tempo, contribuendo al lento declino di questa peculiare pratica fotografica – ma non alla sua completa scomparsa, come vedremo piú avanti.

Come avveniva lo shooting?

Se la famiglia riusciva a racimolare i fondi necessari, quindi, il defunto veniva vestito con i suoi abiti migliori e veniva portato un fotografo per scattare un ultimo ritratto.

A volte il corpo veniva appoggiato su una sedia o su una poltrona, molto raramente venivano messi in posa completamente eretti. In alcuni casi si usavano dei supporti (parzialmente visibili in alcune foto) in altri casi invece la fotografia era un fake o è stata erroneamente attribuita. Capitava anche che il fotografo dipingesse gli occhi sulle palpebre della salma sulla stampa finale dell’immagine (una sorta di paleophotoshop).

All’inizio la pratica della fotografia post mortem prevedeva ritratti del viso o a mezzo busto, per poi evolversi in immagini che richiamassero la quotidianità. Solo successivamente si incluse la presenza della bara in cui la condizione dell’assenza della vita nel soggetto fotografato non veniva più edulcorata. 

Questa fase peculiare della storia della fotografia suscita fascinazione e, sebbene possa apparire inquietante all’osservatore moderno, bisogna comprendere che la percezione e il rapporto con la morte cambiano con le epoche storiche. Noi oggi, specialmente in occidente, abbiamo preso le distanze dal rapporto con la morte preferendo distogliere lo sguardo

La società è cambiata moltissimo dall’Ottocento ad oggi: le due guerre mondiali hanno avuto un impatto pesante che ha influito sulla percezione della morte e del morire. Ad oggi la morte è qualcosa da relegare nell’ombra, qualcosa a cui non bisogna pensare come una possibilità a noi vicina e legata indissolubilmente con il nostro essere organismi con un ciclo vitale finito.

Eppure la fotografia post mortem non è del tutto scomparsa, è solo cambiata. Conserva l’impronta rituale ma è intesa come qualcosa molto piú personale e intima, non viene pubblicizzata e non fa piú parte della vita quotidiana della maggior parte delle persone, al contrario di qualsiasi altro tipo di pratica fotografica che è considerata, invece, linguaggio contemporaneo comune. 

Se anticamente la fotografia post mortem era un servizio affidato a un professionista dietro compenso che elaborava l’immagine in modo che la famiglia potesse fruirne (elaborazione del lutto passiva), oggi la fotografia viene scattata direttamente dalla persona in lutto e questo gesto è legato all’individualità e ha una funzione di processo del dolore e del lutto stesso (elaborazione del lutto attiva). La fotografia diventa così una pratica individuale e soggettiva che, in qualche caso può diventare immagine condivisa con altri soggetti esterni al nucleo familiare grazie ai canali social (per esempio una immagine inviata su Telegram o WhatsApp), cosa che originariamente non accadeva.

Foto in copertina anyjazz65 – Flickr


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