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UE, cosa resterà del Partenariato Orientale?

A sette mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, non è ancora chiaro il destino del Partenariato Orientale, il programma di associazione politica ed economica dell’UE con alcuni Paesi dell’Europa orientale e del Caucaso meridionale.


L’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca, il 24 febbraio 2022, ha messo nuovamente in  luce la debolezza, o quasi assenza, del ruolo dell’UE sul palcoscenico internazionale, soprattutto di fronte alle ‘sfide’ che vedono protagonisti i vicini dell’Est. 

Ed è un paradosso e un’amara consapevolezza dover riconoscere anche stavolta l’inconsistenza e l’astrattismo delle politiche del Partenariato Orientale – il programma nato nel quadro della politica europea di vicinato e di quanto i buoni propositi sanciti su carta si rivelino del tutto fallimentari di fronte ad una reale sfida.

Dopo la guerra in Georgia del 2008 e il conseguente riconoscimento dell’autonomia del Sud dell’Ossezia e dell’Abkhazia, dopo l’annessione della Crimea nel 2014, l’invasione  dell’Ucraina ad inizio anno è solo la conferma delle mire espansionistiche di Putin, con  l’obiettivo di abbozzare una cartina anacronistica dell’URSS. 

Per assurdo, però, l’espansionismo russo, invece che rappresentare una motivazione aggiuntiva, uno sprone e, sotto un certo punto di vista, un’occasione per l’UE di dare slancio alle sue politiche verso Est, ha al contrario rappresentato un freno a qualsiasi altra proposta atta a sviluppare il Partenariato Orientale.  

Lanciato nel 2009 e rivolto ad alcuni Paesi dell’ex blocco comunista (Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Ucraina), il Partenariato Orientale si fondava sui valori condivisi di democrazia, libertà, diritti umani e stato di diritto.

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Fonte – consilium.europa.eu/

Al fine di garantire stabilità politica, sicurezza e prosperità economica, l’UE ha siglato con questi Paesi accordi di diversa natura che contemplavano apertura al libero scambio, promozione di sicurezza energetica e ambientale, incoraggiamento ad una maggiore mobilità delle persone attraverso nuove politiche sui visti. 

Frenati dalla costante minaccia, soprattutto energetica, che la Russia rappresenta in quest’area, i processi di adesione e rispetto degli accordi con l’UE sono stati però altalenanti e lenti. Al contempo, poiché il Partenariato riconosce ai Paesi una certa “autonomia” e flessibilità nel rispettare gli accordi, ognuno ha anche deciso di seguire percorsi indipendenti. 

È il caso di tre dei Paesi del Partenariato Orientale (Ucraina, Moldavia e Georgia) che  hanno mostrato grandi ambizioni all’integrazione nell’UE attraverso la firma di diversi  accordi di associazione – l’ultimo, il DCFTA (Deep and Comprehensive Free Trade Areas) nel  2014. Nell’estate del 2021 hanno dichiarato la creazione di un Trio Associato, con l’obiettivo di perseguire una realistica agenda di integrazione. 

Nonostante questa loro ambizione, i tre Paesi non hanno sempre ottenuto risposte chiare dall’UE, né in termini di prospettive, né di azioni politiche. Bruxelles non è pronta a realizzare la completa adesione di questi Paesi perché ciò implicherebbe necessariamente riforme all’interno delle sue istituzioni. Queste, infatti, al contrario della stabilità che tanto promette l’UE ai Paesi del Partenariato, sono dilaniate da una profonda instabilità nella definizione soprattutto di una politica estera comune, anche ovviamente nei confronti dei Paesi del Partenariato. 

Al vertice del 15 dicembre 2021, ad esempio, è stata espressa solo la necessità di rafforzare  la cooperazione e concedere ad Ucraina, Georgia e Moldavia lo status di candidati all’UE. Pur  riconoscendo la diversità dei Paesi che fanno parte del Partenariato, è stato sancito il  principio di inclusività e differenziazione, necessario per mantenere vivo il Partenariato e  cercare di dare un occhio agli interessi di tutti. 

Ma ecco che, con lo stupore di tutti, a pochi mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, l’UE ha messo in atto due azioni quasi senza precedenti: venendo meno al suo principio di non fornire armi per una guerra, ha offerto all’Ucraina 2,5 miliardi di euro dal Fondo Europeo per la Pace per l’acquisto di attrezzature per l’esercito ucraino.

Inoltre, il 28  febbraio ha accettato la domanda presentata dall’Ucraina per essere riconosciuta come “candidato”, seguita il 3 marzo da quella di Georgia e Moldavia. Anche le relazioni con Armenia e Azerbaijan negli ultimi mesi sono migliorate, con la sigla di un Memorandum di  intesa sull’energia, lasciando per loro lontana la possibilità di vedere riconosciuto lo stato di  candidato. La Bielorussia, invece, ha sospeso il Partenariato, a seguito delle sanzioni  imposte da Bruxelles per il suo sostegno alla Russia in Ucraina. 

Il 23 giugno, il Consiglio Europeo ha addirittura concesso lo stato di Paese candidato ad  Ucraina e Moldavia e si è dimostrato favorevole anche nei confronti della Georgia. Si tratta solo dell’inizio di un processo, non un punto d’arrivo ma, visto dall’esterno, il fatto che Bruxelles riconosca una certa priorità a questi tre Paesi nel concedergli lo status di candidati fa perdere la natura multilaterale ed omogenea dello stesso ed è al contempo elemento di indebolimento del Partenariato Orientale. 

Affrettare questo processo e accettare le candidature è da vedere, infatti, come una risposta dell’Unione europea alla nuova guerra che ha trovato impreparati, stupiti e sbigottiti gli Stati membri. Al contempo, si è rivelata un azzardo, visto lo scontento dei Balcani che la tanto promessa membership ancora non la vedono realizzata.  

Secondo i risultati dell’Eastern Partnership Index 2020-21, infatti, la ragione che ha spinto  a muoversi in questa direzione riguarda le politiche messe in campo da questi Paesi rispondenti ai Criteri di Copenaghen (economia di mercato, stato di diritto e una democrazia  stabile), pur peccando ancora in tema di corruzione e diritti civili. Secondo alcuni  osservatori, sebbene non siano né esemplari né incisivi i cambiamenti democratici in questi  Paesi, velocizzare il loro processo democratico donerebbe una parvenza di concretezza  seppur parziale al Partenariato Orientale. 

La disparità (per alcuni motivata per altri no) tra i Paesi del Partenariato ha fatto ad alcuni  dubitare della sua stessa esistenza. Il continuo tira e molla della politica del Partenariato Orientale denota un calo reputazionale dell’UE nella gestione delle sue politiche e una strumentalizzazione delle stesse, dal momento che tornerebbero in auge solo quando l’ombra russa riprende a far tremare. 

Pensare ad un futuro del Partenariato Orientale si può, certo, nonostante l’incertezza che la guerra in Ucraina dà ogni giorno. Affinché ci sia una politica efficace verso i vicini orientali è necessario però partire da una ridefinizione dell’identità stessa dell’UE. 

Cristiana Ruocco

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