USA 2020, le incognite del voto negli Stati Uniti
A tre settimane dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, con la sfida tra Donald Trump e Joe Biden, facciamo il punto sul voto più atteso dell’anno.
Tre settimane. Questa la distanza che ci separa dal giorno in cui gli Stati Uniti eleggeranno il loro nuovo Presidente. Come tutti sappiamo, la scelta è tra il presidente in carica Donald Trump e lo sfidante Joe Biden. Il primo, repubblicano, che quattro anni fa ha conquistato la scena politica dentro e fuori il suo partito, stravolgendo (forse irrimediabilmente) la politica statunitense e gli equilibri geopolitici mondiali; il secondo, democratico, che dopo una lunga carriera culminata nella vicepresidenza durante il mandato di Obama si presenta come il candidato del “back to normal”, qualsiasi cosa possa significare questa espressione.
Per raccontare i quattro anni della presidenza Trump servirebbe un libro. Basti pensare alle ultime due settimane e a tutti gli eventi che hanno segnato questi ultimi giorni di campagna elettorale. Partiamo dal dibattito (l’unico finora) di fine settembre tra i due candidati alla presidenza, che resterà nella storia per la violenza verbale e il disprezzo per qualsiasi regola. Mentre Trump ha assunto fin dall’inizio una modalità aggressiva, interrompendo e offendendo più volte Biden («sei una marionetta nelle mani della sinistra radicale», «non c’è niente di intelligente in te»), il candidato democratico ha ribattuto definendo l’avversario «bugiardo e clown» e il «peggior presidente della storia», senza però riuscire a tenere testa alle offese e mostrando una certa stanchezza. La stessa che gli è valsa l’appellativo di “sleepy Joe”, nomignolo offensivo inventato proprio da Trump e che, al netto dell’offesa, rappresenta perfettamente l’immagine di Biden per una fetta trasversale dell’elettorato.
Al dibattito è seguita la notizia del contagio del presidente Trump e di alcuni membri della sua famiglia e del suo staff. Una notizia che, come tutti hanno compreso sin dall’inizio, avrebbe influenzato inevitabilmente il proseguimento della campagna elettorale. E ciò indipendentemente dalla (presunta) guarigione di Trump, con tanto di ritorno al Campidoglio dall’ospedale militare in elicottero dopo soli tre giorni di ricovero e apparizione pubblica dal balcone della Casa Bianca.
«Ora avete un presidente immunizzato, che non deve nascondersi nello scantinato»: queste le parole sprezzanti di Donald Trump al ritorno dal Walter Reed Medical Center. «Ho ricevuto il via libera dei medici della Casa Bianca per tornare in campagna elettorale. Sono tornato e sono tornato meglio di prima. I democratici speravano di tenermi fuori per settimane». Secondo alcune indiscrezioni del New York Times, Trump voleva persino mostrarsi in pubblico con la maglietta di Superman, dopo le sue dimissioni dall’ospedale. Alla fine ha desistito dal mettere in atto la sua performance, risparmiandoci una scena degna di un film, o peggio di un reality show.
Resta il fatto che, anche per la mancanza di informazioni certe sullo stato di salute del presidente e sulla sua contagiosità, il dibattito previsto per giorno 15 è stato annullato. La Commissione dei dibattiti presidenziali aveva offerto la possibilità ai due contendenti di tenere un dibattito a distanza; l’ipotesi è stata scartata, dunque non resta che aspettare almeno fino al 22 ottobre. Nulla però vieta di organizzare altri dibattiti a ridosso del 3 novembre, sebbene si tratti di uno scenario che si discosta dalla prassi.
D’altronde queste elezioni si stanno discostando dalla prassi per tanti motivi, oltre a quelli elencati. Al di là della violenza verbale inaudita, infatti, lo scontro tra Trump e Biden è segnato da almeno tre fratture talmente grandi da mettere a rischio il processo elettorale nel suo complesso. La prima riguarda l’esercizio stesso del diritto di voto per posta, più volte delegittimato da Trump. Sebbene l’impennata del voto per posta (con tutti i problemi logistici che da essa derivano) sia inevitabile a causa del Covid-19, quelle del mail-in-ballot e dell’absentee ballot (rispettivamente, il voto per posta e il voto a distanza) sono procedure diffuse da tempo, che nei fatti non hanno mai influenzato una parte politica a scapito dall’altra.
Tuttavia, da mesi Trump denuncia l’irregolarità di queste pratiche, arrivando ad affermare che le elezioni sarebbero invariabilmente truccate e operando tra l’altro una distinzione arbitraria tra absentee e mail-in-ballot. La ragione è presto detta: a meno di una valanga democratica, è probabile che la notte delle elezioni il presidente risulti in vantaggio nella conta del voto ai seggi, per poi assistere all’erosione di questo vantaggio man mano che vengono contati i voti per posta. Trump vuole delegittimare questo esito in partenza: così, potrebbe dichiararsi vincitore su Twitter prima del conteggio definitivo dei voti e sostenere che i voti arrivati per posta sono truccati.
E qui arriviamo al secondo problema: la Corte Suprema. Dopo la morte di Ruth Bader Ginsburg, Donald Trump si è affrettato ad avviare le procedure per la sua sostituzione con la nomina di un giudice più vicino alle sue posizioni, Amy Coney Barrett. La maggiore preoccupazione di Trump è quella di arrivare al più presto a una Corte di nove giudici con una maggioranza a suo favore: se infatti si arrivasse a un risultato contestato, i giudici della Corte avrebbero voce in capitolo sull’esito finale del voto.
Il terzo problema riguarda, invece, la reazione dell’estrema destra all’esito del voto. Ogni volta che negli ultimi mesi è esplosa una protesta di Black lives matters, si sono presentati gruppi armati di suprematisti bianchi, alcuni dei quali sostengono senza mezzi termini la necessità di una nuova guerra civile. Come si comporterebbero questi gruppi in caso di un’elezione contestata? Per farsi un’idea sull’effettività del pericolo, basti pensare che giovedì 8 ottobre l’FBI ha sventato un piano architettato da una milizia di estrema destra per sequestrare la governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer. A quanto risulta dalle indagini, gli arrestati si vedevano regolarmente per addestrarsi e costruire esplosivi, e sorvegliavano periodicamente la residenza estiva di Whitmer.
Ciò che accadrà nelle prossime settimane è dunque particolarmente imprevedibile. E il giudizio non cambia nemmeno se guardiamo i sondaggi sulle elezioni presidenziali, che danno tutti in netto vantaggio Biden su Trump. Vale la pena ricordare che nel 2016 tutti i polls davano in vantaggio Hillary Clinton: sappiamo tutti com’è andata a finire.
Ciò che possiamo fare è dunque costruire scenari su come potrebbero diventare gli Stati Uniti (e il mondo) se vincesse l’uno o l’altro candidato. Su alcuni elementi, soprattutto in politica estera, le differenze non sarebbero così marcate: lotta al terrorismo, cybersecurity, rapporti con la Russia, per citarne alcuni. Lo stesso in fondo vale per i rapporti con la Cina, che con Biden potrebbero diventare più tesi, sebbene per ragioni differenti: un’amministrazione Biden porrebbe, infatti, la questione dei diritti umani in modo più coerente. Le attuali tensioni sul commercio, le politiche industriali e la tecnologia persisterebbero, e una forte rivalità sino-americana rimarrebbe una caratteristica del sistema internazionale.
Ben diversi invece gli scenari rispetto ai temi della lotta al coronavirus e al cambiamento climatico: con Biden gli Stati Uniti si riunirebbero all’OMS e agli accordi di Parigi del 2015, mettendo in campo un piano ben più serio di quello di Trump per il contrasto della pandemia a livello globale e abbandonando l’atteggiamento negazionista sul cambiamento climatico, con investimenti massicci per la transizione green.
Più complicato invece fare pronostici sui rapporti con l’Unione Europea e questo per un motivo di politica interna: Biden, infatti, non è intenzionato solamente a raddoppiare il salario minimo, ma anche a rilanciare la produzione manifatturiera americana e penalizzare la delocalizzazione, attraverso il pacchetto “Made in All of America”, che prevede tra le altre cose un credito fiscale per le imprese che decideranno di investire e produrre negli Stati Uniti. Difficile dunque che i rapporti commerciali con l’Unione Europea e i suoi Stati membri tornino improvvisamente com’erano prima dell’era Trump.
E se vincesse Trump? Come conclude John Bolton nel suo libro, Trump in un secondo mandato sarebbe “molto meno vincolato dalla politica di quanto non fosse in un primo mandato”. Sarà libero di essere se stesso e perseguire politiche che lo avvantaggiano personalmente, attaccando le persone che non gli piacciono e aiutando le persone che gli piacciono. Potrebbe staccare completamente la spina dalla NATO. Rispetto al tema della pandemia, tutto dipenderebbe invece dalla disponibilità di un vaccino, la cui produzione rimarrebbe comunque vincolata a una politica nazionalistica, piuttosto che improntata alla cooperazione internazionale.
Non resta, dunque, che seguire gli eventi delle prossime settimane e augurarsi che gli elettori americani facciano scelte ragionevoli, dentro e fuori le urne. Ne va del loro futuro e, in fondo, di quello del mondo intero.
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