Il diritto all’aborto: la posizione della Corte Suprema USA

 
 

La nomina presidenziale di Amy Coney Barrett per la Corte Suprema USA mette a rischio il diritto all’interruzione di gravidanza negli Stati Uniti.


Il prossimo 12 ottobre la Commissione Giustizia del Senato americano inizierà l’audizione della candidata giudice alla Corte Suprema, proposta dal Presidente Trump, Amy Coney Barrett

L’articolo 3, sezione I della Costituzione americana istituisce la Corte Suprema degli Stati Uniti, prevedendo che l’attribuzione della funzione giudicante avvenga dietro nomina diretta del Presidente e successiva conferma da parte del Senato.  Attualmente, i giudici della Corte sono nove e questi, qualora esercitino le funzioni sempre secondo buona condotta, mantengono la carica a vita.

La morte, lo scorso 18 settembre, della giudice Ruth Bader Ginsburg, distintasi per un’onorata carriera a difesa dei diritti delle donne, apre spazio a grandi interrogativi sulla futura posizione della Corte in merito alle più disparate questioni sociali, tra cui emerge la garanzia dell’efficace tutela del diritto all’interruzione di gravidanza in tutti gli Stati federati. «Siamo sempre stati preoccupati, ma oggi la situazione è più grave», sostiene Jennifer Dalven dell’Unione americana per i diritti civili (Aclu). 

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Ruth Bader Ginsburg

Nel XIX secolo, la legislazione degli USA permetteva l’interruzione di gravidanza fino al “quickening”, cioè il momento in cui la donna sentiva o percepiva i movimenti fetali. Verso la metà del secolo, però, l’appena costituita American Medical Association iniziò una campagna per criminalizzare e rendere illegale l’aborto per motivi scientifici, morali e pratici. Scientificamente e secondo l’opinione dei medici dell’epoca, il “quickening” non poteva considerarsi un parametro accettabile e già dalla fecondazione si poteva parlare di una nuova vita umana. Nel 1959, tuttavia, l’American Law Institute pubblicò un progetto per rendere legale l’interruzione di gravidanza nei casi di stupro, incesto, anormalità fetale oppure di rischio per la salute della gestante. 

Il 22 gennaio 1973, infine, la Corte Suprema degli Stati Uniti riconobbe, nella nota sentenza Roe vs. Wade, l’accesso sicuro e legale all’interruzione di gravidanza quale diritto costituzionalmente garantito. 

Già in quello stesso contesto, lo Stato del Texas presentò ricorso alla Corte Suprema, la quale tuttavia dichiarò il divieto dello Stato federale anticostituzionale, ribadendo il diritto delle donne statunitensi all’aborto. Il punto cardine della pronuncia risiede nel diritto costituzionale alla riservatezza secondo il quattordicesimo emendamento della Costituzione americana, che sancisce il diritto alla libertà di scelta di qualunque individuo su questioni riguardanti la sfera più intima, superando così anche gli interessi degli Stati. 

La storica pronuncia Roe vs. Wade trasferì il dibattito sull’aborto dal livello statale a quello nazionale, divenendo banco di prova tra le più folte agende politiche, nel susseguirsi delle legislazioni tra democratici e repubblicani. 

Dopo la vittoria di Ronald Reagan alle elezioni presidenziali, i movimenti pro-vita intensificarono la loro attività, pianificando anche elezioni di membri del partito repubblicano nella Corte Suprema al fine di ribaltare la sentenza Roe vs Wade. Il primo momento di scontro, tuttavia, arrivò circa venti anni dopo con la sentenza Planned Parenthood vs. Casey, con cui la Corte non abolì del tutto le disposizioni statuite, ma stabilì la possibilità per gli Stati federali di normare autonomamente le condizioni di interruzione di gravidanza, purché non contrastanti con il diritto costituzionalmente sancito.

A livello politico, una delle più importanti riforme in materia di salute degli ultimi venti anni, l’Affordable Care Act firmata dal Presidente Barack Obama nel 2010, si proponeva di assicurare una copertura sanitaria a tutti gli statunitensi in modo universale e a ridurre i costi dei servizi. Uno dei punti deboli di questa legge riguarda, però, i finanziamenti federali: anche dopo le diverse richieste dei movimenti pro-choice, l’ObamaCare mantenne l’Hyde Amendment (approvato nel 1976) che vieta l’utilizzo di fondi federali per pagare le interruzioni di gravidanza, tranne nei casi di stupro, incesto e se la vita della madre è in pericolo.

Il mandato di Donald Trump, invece, è iniziato con la riattivazione della Mexico City Policy, conosciuta come la “regola del bavaglio globale”: le organizzazioni al di fuori dei confini nazionali non possono ricevere fondi se coinvolte in azioni relative alla promozione dell’interruzione di gravidanza. Questa politica è stata introdotta nel 1985 da Ronald Reagan e, nel corso degli anni, ha subito abolizioni (Clinton e Obama) e riattivazioni (Bush senior, Bush junior e Trump). Le diverse associazioni di categoria pro-choice, tra cui If/When/How, sottolineano come reintrodurre un siffatto tipo di normativa porterebbe all’aumento incontrollato di aborti clandestini. 

Questa, in realtà, è solo una delle azioni che la politica di Trump sta attuando per limitare o vietare il diritto all’interruzione di gravidanza: tra le prime vi è stata, infatti, la nomina, il 6 ottobre 2018, del giudice Brett Kavanaugh alla Corte Suprema, dopo un duro dibattito nella Camera e nel Senato. Proveniente dall’ala più conservatrice del partito Repubblicano, Kavanaugh infatti è un convinto pro life e sostenitore del secondo emendamento (il diritto di possedere armi). 

La nuova nomina del Presidente USA di Amy Coney Barrett per la Corte Suprema, a seguito della morte di Ruth Bader Ginsburg, conferma senza dubbio lo stesso tipo di impostazione. Se Barrett venisse confermata dal Senato, i repubblicani non otterrebbero solo un altro giudice favorevole alle imprese prima delle elezioni del 2020, ma godrebbero anche del favore di un terzo membro della Corte che ha lavorato direttamente in quella squadra legale che ha convinto la Corte Suprema degli Stati Uniti a consegnare, nel 2000, la presidenza ai repubblicani. Ad colorandum, poi, il curriculum di Barrett sulle questioni sociali è estremamente degno di esame: ha firmato un annuncio che critica Roe vs. Wade, suggerendo che un tribunale più conservatore potrebbe accettare restrizioni statali sulle cliniche abortive; si è dichiarata a favore dell’amministrazione Trump sulle politiche migratorie restrittive e, come giudice, ha scritto opinioni dissenzienti contro i limiti dei diritti sulle armi.

Nel 2019 almeno otto Stati hanno approvato provvedimenti per limitare le interruzioni di gravidanza, nella maggior parte dei casi introducendo le cosiddette leggi “del battito cardiaco”, che potrebbero proibire l’aborto già dopo la sesta settimana di gravidanza. Tutti i divieti sono stati temporaneamente bloccati dai tribunali. A giugno del 2020, la Corte Suprema ha bocciato una legge della Louisiana molto restrittiva. Il giudice John Robert, considerato un moderato, e i suoi quattro colleghi più progressisti, tra cui Ginsburg, hanno stabilito (cinque voti a quattro) che la legge violava i diritti sanciti dalla sentenza Roe vs. Wade. Se la nomina di Barrett venisse confermata, in futuro il blocco conservatore sarebbe in maggioranza, anche se Roberts si dovesse schierare con i tre progressisti.

Per diversi anni, durante le campagne elettorali per le elezioni presidenziali statunitensi, i candidati hanno ripetuto senza troppa convinzione che in ballo c’era il diritto all’aborto. Stavolta pare sia davvero così. Se la sentenza Roe vs. Wade dovesse essere ribaltata, le politiche sull’aborto potrebbero subire drastici cambiamenti da uno Stato federale all’altro. Secondo le stime di Planned parenthood, un’organizzazione che aiuta le donne ad abortire, la cancellazione della sentenza del 1973 provocherebbe un’ondata di divieti in venti Stati e riguarderebbe venticinque milioni di donne in età riproduttiva. 

Per capire le implicazioni di un tale scenario, basti osservare le misure intraprese da diversi governatori nei primi mesi di pandemia: in quel periodo, infatti, i governatori repubblicani di alcuni Stati, tra cui il Texas, hanno approvato dei decreti per vietare la maggior parte degli aborti, sostenendo la non essenzialità di tali procedure mediche.

Negli USA del 2020, ormai quasi simbolicamente divisi in una dicotomia che va dai movimenti civili di Black Lives Matter ai Proud Boys, l’efficace tutela di diritti costituzionali, quale quello all’interruzione di gravidanza, sembra porsi quale cartina di tornasole di una società ormai in rinnovamento.