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Migranti ambientali, invisibili tra gli invisibili

I cambiamenti climatici sono sempre stati parte della storia dell’umanità, ma oggi il riscaldamento globale innescato dall’uomo sta generando un numero senza precedenti di migranti ambientali, privi di specifiche tutele.


La crisi climatica che stiamo vivendo ha effetti disastrosi sui diritti umani, nonché sui diritti sociali, economici e culturali delle persone. È bene da subito considerare che, nonostante siano fenomeni che coinvolgono tutte le persone nel mondo, le conseguenze dei cambiamenti climatici non saranno uguali per tutti e, senza un’inversione di rotta, porteranno a scenari globali sempre più drammatici. 

Le variabili ambientali scatenano infatti cambiamenti sociali e trasformazioni radicali in un costante rapporto di causa ed effetto relativo al legame tra giustizia ambientale e sociale.

Secondo il report Global Trends dell’UNHCR, infatti, nel 2020 82,4 milioni di persone (di cui il 42% di minori) sono state costrette a migrare; un numero quasi raddoppiato rispetto a quello riportato per il 2010 (poco meno di 40 milioni), e aumentato del 16,4% anche solo rispetto al 2018 (70,8 milioni nel 2018). Numeri che cresceranno sempre più, nonostante non esista ancora una vera e propria rilevazione quantistica del fenomeno migratorio ambientale.

Chi è il migrante ambientale?

Risale al 1976 la definizione di “profugo ambientale”, coniata per la prima volta Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute. Il termine “rifugiato ambientale”, invece, compare per la prima volta in maniera ufficiale nel 1985, in un rapporto dell’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente), che si intitola proprio “Environmental refugees”. 

Secondo il ricercatore egiziano Essam El-Hinnawi, autore dello studio, «i rifugiati ambientali sono quelle persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat tradizionale, temporaneamente o permanentemente, a causa di un forte dissesto ambientale (naturale e/o provocato dalle persone) che ne ha compromesso l’esistenza e/o ha gravemente compromesso la qualità della vita».

La definizione di El-Hinnawi, non risulta però esaustiva. In ogni caso, a oggi, ancora non esiste una terminologia condivisa dal punto di vista scientifico-giuridico e soprattutto una forma di protezione per tutelare tutte quelle persone costrette a fuggire a causa di criticità ambientali. 

Questa indeterminatezza ha portato, nel corso degli anni, a una grande confusione terminologica e alla proliferazione di termini come “eco migrante”, “migrante ambientale”, “migrante ambientale forzato”, “rifugiato climatico”, “sfollato ambientale”, sia in documenti ufficiali sia in altre tipologie di pubblicazioni.

Gli scenari futuri possibili

Sebbene sia difficile fare delle previsioni sui movimenti migratori futuri, un rapporto della Banca Mondiale offre una panoramica su quelli che potrebbero essere i numeri della migrazione climatica e ambientale nel 2050 nell’Africa sub-sahariana, Sud Asia e America Latina, proponendo tre diversi scenari:

– Il primo, considerato come il più plausibile, prende in considerazione i movimenti migratori nel caso in cui non verranno adottate misure significative per la riduzione dell’emissione dei gas serra e se si continuerà a optare per percorsi di sviluppo iniqui. Il totale delle persone costrette a migrare nelle tre macro-aree geografiche ammonterà a circa 143 milioni (86 milioni in Africa Sub Sahariana, 40 milioni nel Sud Asia e 17 milioni in America latina);

– Nel secondo scenario, senza cambiamenti sensibili di emissioni di gas serra ma adottando miglioramenti nei percorsi di sviluppo, la forbice migratoria si attesterebbe tra i 65 e 105 milioni di persone;

– Infine, una sensibile diminuzione del numero dei migranti forzati – tra i 31 e 72 milioni – si avrebbe adottando politiche più ecosostenibili e facendo in modo che nel 2050 il surriscaldamento globale non oltrepassi i 1.6 °C.

Tornando con uno sguardo al presente, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), durante il 2020 si sono registrati 40 milioni e mezzo di nuovi sfollati interni, di cui 30 milioni e 700 mila persone sono state obbligate a fuggire a causa di disastri ambientali; 9 milioni e 800 mila persone a causa di violenze e conflitti. 

La crisi climatica come fattore invisibile

Molte delle crisi territoriali registrate oggigiorno che fungono da driver migratori, nascono da un insieme intricato di fattori sociali e ambientali, spesso tali da rendere difficile individuare le cause primarie o quelle correlate: conflitti, persecuzioni di natura etnica, politica, religiosa, di genere, catastrofi ambientali, accaparramento delle risorse o la lenta dissoluzione degli ecosistemi territoriali. 

Questi ultimi due casi, in particolare, sono i più sfuggevoli per via della loro natura, perché dispiegano i loro effetti negativi su un arco temporale lungo e più difficile da individuare e anche tutelare nella normativa internazionale.

Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, infatti, il 95% dei conflitti registrati nel 2020 sono avvenuti in Paesi ad alta o altissima vulnerabilità ai cambiamenti climatici e degrado ambientale: l’ambiente dunque potrebbe essere uno dei fattori scatenanti ma è quasi invisibile agli occhi del diritto.

Per citare alcuni esempi, nel 2020, in Burkina Faso gli sfollati interni hanno superato il milione di persone, uno ogni 20 abitanti, in Niger e in Mali sono cresciuti di alcune migliaia, così come in Nigeria e nella Repubblica Centrafricana. 

In Sudan le comunità rurali sono state gravemente colpite da un insieme di fenomeni siccitosi, inondazioni e infestazioni di cavallette che hanno ridotto le terre destinate a pascolo e innescato tensioni con gli agricoltori, con conseguenti conflitti e sfollamenti. 

Una dinamica analoga si è riscontrata anche in Ciad, nella regione dell’omonimo lago: dal 1960 a oggi, questo specchio d’acqua fondamentale per l’economia e l’ecosistema locale, ha ridotto la sua portata d’acqua di circa il 90% anche a causa dei cambiamenti climatici. 

Qui le tensioni per le scarsità di risorse, l’alternarsi di inondazioni e periodi siccitosi e l’insicurezza dovuta alle guerriglie e al clima di terrore portato dalle milizie terroristiche di Boko Haram, hanno prodotto 300 mila sfollati, circa il 60% della popolazione di cui il 61% sono minori di età.

Partendo dunque da un “innesco climatico”, l’intreccio di una serie di fattori complessi come le tensioni religiose, sociali e politiche, il deterioramento delle condizioni economiche dovute anche a scelte sbagliate nella gestione del territorio, hanno ridotto la popolazione allo stremo, contribuendo ad accendere i moti, le rimostranze e il conseguente conflitto.

Da qui la scelta di molti di emigrare, di cercare sicurezza fuori dal proprio Paese, in alcuni casi in Paesi confinanti, oppure verso l’Europa. Non ci sono dati certi, ma è probabile che un’altissima percentuale di migranti abbia richiesto asilo nel nostro Paese per ragioni comunque connesse all’ambiente.

Come già detto precedentemente, la migrazione ambientale non è stata sufficientemente studiata e affrontata. È un fenomeno, inoltre, che ci dà la misura di quanto l’ambiente è deteriorato e a quali conseguenze stiamo andando incontro noi tutti, come persone. 

Ritenere tale problema marginale, o non degno di oggetto di studio, significherebbe rifiutarsi di occuparsi del futuro, anche in relazione ai diritti intergenerazionali e rappresenta altresì il rifiuto di comprendere che siamo tutti parte dello stesso pianeta.

Le condizioni dei migranti ambientali, presto, saranno percepite da persona vivente. Ignorarle significa mettere in repentaglio i diritti umani di chi oggi è costretto a spostarsi per ragioni ambientali e climatiche e di chi, senza gli opportuni interventi per ridurre le emissioni, probabilmente lo sarà.


Immagine in copertina di Takver 

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Rosa Guida

Laureata in giurisprudenza e attivista per i diritti umani. Appassionata di economia, storia e arte.