Lo sport come forma di redenzione e riabilitazione
Può lo sport avere un potere così forte da creare nelle persone dei percorsi di riabilitazione, di redenzione e di inserimento sociale?
Già da tempi remoti, l’uomo si è reso conto dell’utilità e del beneficio che il movimento fisico apporta all’organismo. Pensiamo, senza andare troppo in là con i tempi, agli antichi Greci, che dedicavano tanto tempo al culto del corpo anche nell’ottica competitiva con l’organizzazione delle Olimpiadi.
La cultura sportiva è stata tramandata anche nella tradizione latina, famosa è la locuzione di Giovenale “Mens sana in corpore sano” a dimostrazione del fatto che per una migliore riflessione ed utilizzo delle capacità cognitive è necessario che il “tempio” della mente stia bene, sia in forma e in salute.
Negli anni lo sport ha assunto una funzione sempre maggiore diventando sempre più popolare all’interno della popolazione. Oggi le pratiche sportive sono innumerevoli, sia individuali che di squadra, e chiunque abbia frequentato delle attività sportive non può negare il beneficio acquisito.
Gli sport individuali, così come quelli di squadra, come si è visto, danno dei benefici che vanno oltre il benessere fisico. Il primo mette alla prova le proprie resistenze e barriere, ponendo l’individuo a confronto con i propri limiti così da poterli riconoscere, accettare, affrontare e superare.
Lo sport di squadra invece stimola oltre alle competenze individuali anche le abilità socio-relazionali tipiche della psicologia dei gruppi aiutando i soggetti a migliorare la propria condizione all’interno delle interazioni sociali. D’altronde, oggi il concetto di salute, secondo l’OMS, include il benessere fisico e il benessere mentale in un continuum.

Negli ultimi dieci anni si è aperto un nuovo fronte della riabilitazione psichiatrica che passa per l’inserimento di soggetti all’interno di contesti sportivi individuali o di squadra. Numerosi studi clinici che analizzano il miglioramento della salute psicologica in correlazione alla quantità di attività sportiva effettuata, dimostrano che chi frequenta attività sportive con regolarità presenta una qualità della vita migliore, sia nei casi di soggetti “sani”, sia nei casi di soggetti con diagnosi.
Tenendo conto di queste considerazioni è stato attivato un piano di azione europeo che vede la collaborazione di sette enti provenienti dagli stati membri che hanno l’obiettivo di promuovere e supportare percorsi riabilitativi che prevedono l’uso di attività sportive.
Numerose sono le realtà sul territorio nazionale, dalla nazionale di calcio per soggetti con diagnosi psichiatrica, alla nazionale di basket e nuoto con ragazzi con sindrome di Down che hanno appena vinto medaglie di caratura internazionale. La ricerca nel settore è costante e ogni giorno nuove discipline vengono inserite nell’elenco degli sport idonei per soggetti con disabilità intellettiva.
L’atletica e il nuoto individuale sono due discipline che vanno per la maggiore nella riabilitazione psichiatrica, quelle più studiate e che mostrano più risultati. Anche sport di squadra come il basket e la pallanuoto riescono a fornire degli standard riabilitativi non indifferenti, così come la vela e la canoa.
Gli studi su queste discipline hanno dimostrato come praticare l’attività specifica sia fonte di successo e di empowerment della propria autonomia, senza dover tenere conto dei funzionamenti e delle diagnosi dei partecipanti.
Sport di combattimento come il taekwondo, il pugilato o attività intense come il crossfit sono diventate oggetto di osservazioni e anche in questo caso i risultati sono entusiasmanti.

La pratica sportiva permette la possibilità di avere successo dal momento che l’allenamento e il carico fisico sono tarati sulle capacità di base della persona. Il costante successo e le abilità acquisite fanno sì che la motivazione dei partecipanti sia sempre alta, e questo permette un intervento diretto sulle abilità del soggetto senza però effettuare delle terapie propriamente dette in ambiente ospedaliero. Così facendo si normalizza il percorso di crescita di qualsiasi soggetto, a qualsiasi età, con qualsiasi diagnosi e funzionamento.
In Italia, avviare attività di questo tipo è complesso, soprattutto al Sud, sia per via dell’assenza di strutture sportive adeguate, sia perché è mancante una cultura dello sport propriamente detta. Tutto ciò che fa parte della cultura è da imputare per il buon 80 per cento alla scuola, basti pensare però che il 90 per cento delle strutture scolastiche sono sprovviste di luoghi adeguati dove svolgere attività sportive e quando sono presenti, poco spazio viene lasciato alle attività sportive indirizzate a soggetti con disabilità.
Ma qualcosa si muove. Oggi in qualsiasi settore sportivo, sul territorio nazionale, esiste almeno una realtà che prova ad aprire le porte alla disabilità. Si insegna, sin dal primo anno di università, che bisogna trattare i soggetti con diagnosi psichiatrica o di disturbo dello sviluppo come se fossero soggetti “normali”; e allora non è normale svolgere un’attività sportiva che sia adeguata ai propri standard? Non è normale dare la possibilità di fare esperienze sportive come gare, ritiri, trasferte a soggetti che altrimenti passerebbero la maggior parte del proprio tempo chiusi in casa o in un centro?
La risposta è “sì, è normale”. Allora bisogna supportare tutte le realtà che provano oggi a mettersi in gioco e a mettere in gioco dei ragazzi che per la società sono reietti, emarginati, ma che se messi alla prova trovano il loro spazio, la loro dimensione. Lo sport è la dimensione alternativa, dove siamo tutti uguali, dove abbiamo tutti la stessa possibilità di riuscita.