disturbi specifici di apprendimento

La questione dei disturbi specifici di apprendimento. Quale futuro dopo la scuola?

Dal 2010 con la Legge 170 il mondo della scuola e dell’università riconosce i diritti delle persone con accertati disturbi specifici di apprendimento (DSA). Ma dopo il diploma o la laurea le persone con diagnosi DSA, nel mondo del lavoro, sembrano ritornare a essere invisibili.


Il mondo della Scuola e dell’Università si confronta con il tema dei disturbi specifici di apprendimento ormai da più di un decennio. In accordo con l’articolo 34 della nostra Costituzione che garantisce il diritto all’istruzione per tutti, ad oggi, dopo l’introduzione della Legge n. 170 dell’8 ottobre 2010, si sono succeduti nel tempo fondamentali interventi normativi (come il Decreto attuativo 5669/2011 e le “Linee Guida per il diritto allo studio degli studenti con DSA”) che hanno introdotto adeguati strumenti di tutela e supporto a garanzia dell’inclusione scolastica e del successo scolastico degli studenti DSA

Appare chiaro quindi che all’interno del vasto panorama dell’inclusione, i Disturbi Specifici del linguaggio e dell’Apprendimento (DSA) rappresentano una categoria peculiare, da non confondere né con i Bisogni Educativi Speciali (BES) né con la disabilità cognitiva vera e propria. Tra tutte queste forme considerate dagli esperti come “atipicità dello sviluppo” troviamo anche le varie forme in cui può presentarsi il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, la cosiddetta sindrome ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder). Nello specifico sono contemplati tra i disturbi specifici dell’apprendimento: la dislessia, la disgrafia, la discalculia e la disortografia.

L’ingresso traumatico nel mondo del lavoro

Fuori dal panorama scolastico, nel passaggio dal percorso formativo a quello lavorativo dei DSA, sembra perdersi di vista la necessità e peculiarità delle tutele che pure la legge giudica doverose e imprescindibili tra i banchi di scuola. Ma cos’è che rende opaco questo passaggio? E cosa manca affinché la piena parità di opportunità venga realizzata anche in ambito lavorativo?

Il primo dato con cui occorre confrontarsi lo fornisce il Report MIUR sui dati principali relativi agli alunni con DSA pubblicato nel novembre 2020 che contiene i risultati di indagini statistiche svolte durante l’anno scolastico 2018/2019. Secondo tale report, la percentuale di diagnosi DSA in Italia oscilla tra il 3,1 per cento per la scuola primaria e il 5,3 per cento per quanto riguarda la secondaria di primo grado. In generale, sembra che il 5 per cento della popolazione totale sia affetto da DSA, percentuale a cui andrebbero sommati i casi di diagnosi in età adulta che non sono stati riconosciuti durante il percorso scolastico. 

Ma anche per quanto riguarda gli adulti con diagnosi precoce, una volta terminati gli studi nell’ambito dei quali la scuola garantisce determinate forme di sostegno integrativo-compensative, l’affacciarsi al mondo del lavoro sembra rappresentare l’inizio di un destino votato all’invisibilità e al disagio per le conseguenze ostacolanti rispetto all’accesso a determinati settori professionali, soprattutto nel settore pubblico in cui il merito viene selezionato attraverso concorsi e graduatorie di merito formulate sulla base di un unico standard per tutti. 

Invisibilità: il caso dell’avvocatura

La storia di un vissuto fatto di questa invisibilità mista al costante senso di inadeguatezza che ne deriva è la vicenda raccontata dall’avvocato milanese Antonio Caterino in un denso articolo pubblicato in forma estesa su Questione Giustizia e ripreso nei suoi passaggi principali da Valigia Blu

Caterino racconta con dovizia di particolari del suo travagliato percorso formativo che lo ha portato a una diagnosi DSA solamente a 26 anni, dopo la quale ha potuto finalmente avere accesso agli strumenti compensativi che, successivamente, lo hanno reso il primo richiedente in Italia di misure compensative per l’esame di avvocato e tra i promotori del primo protocollo di intesa per le norme da applicare in sede di esame di avvocato ai candidati DSA, sottoscritto nel dicembre 2019. 

A distanza di due anni, il 5 agosto 2021, anche grazie alla tenacia dell’Avv. Caterino e al coraggio di esporre pubblicamente la sua personale vicenda diagnostica in ambito lavorativo, con la legge n.113/2021 «è stato introdotto l’obbligo di riconoscere a favore dei candidati con DSA l’applicazione di strumenti compensativi nei concorsi pubblici indetti dallo Stato, Regioni, Comuni» che colma, di fatto, il gap normativo creatosi tra le tutele scolastiche disciplinate dalla legge 170 e il sistema di reclutamento nella PA.

Ma questo può bastare?

L’intenso dibattito interno alla Scuola Superiore di Avvocatura del distretto milanese dell’ordine degli avvocati, sottolinea la necessità di avviare, nei prossimi anni, un serio confronto con il Consiglio Nazionale di ciascun ordine professionale che preveda un esame di abilitazione, dal momento che il riconoscimento di tali tutele per i candidati DSA non può razionalmente rimanere confinato ai concorsi pubblici della PA (Legge 113/2021) e all’abilitazione all’avvocatura (D.L. 139/2021). 

L’aspetto ancora preoccupante di questo tema riguarda tuttavia il settore privato, all’interno del quale non ci sono ad oggi né norme condivise per i datori di lavoro e per le aziende, né tanto mento organi di controllo a tutela delle procedure di selezione degli aspiranti candidati certificati come DSA

I recenti provvedimenti normativi varati per colmare il grave abbandono cui erano destinati i cittadini DSA dopo aver terminato gli studi, risulta inoltre coerente con gli obiettivi che l’Agenda ONU per lo Sviluppo Sostenibile si è prefissa di raggiungere entro il 2030. Il quarto obiettivo dell’agenda prevede infatti che entro il 2030: «Tutte le persone a prescindere dal sesso, dall’età, dalla razza o dall’etnia, persone con disabilità, migranti, popolazioni indigene, bambini e giovani, specialmente coloro che si trovano in situazioni delicate, devono avere accesso a opportunità di apprendimento permanenti che permettano loro di acquisire gli strumenti e le conoscenze necessarie per partecipare pienamente alla vita sociale».

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Anche se non contiene l’esplicito riferimento alla categoria DSA, possiamo dire che il documento sottolinea senza dubbio la necessità che a tutti possa essere garantito l’inserimento attivo nei processi di life, long, learning finalizzati a una sempre maggiore inclusione sociale proprio attraverso la creazione di un ponte tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro. 

Nel caso specifico dei disturbi dell’apprendimento questo ponte, fatto della continuità delle tutele che devono necessariamente iniziare a essere estese oltre la scuola, trova i suoi pilastri sia nell’aggiornamento dei processi normativi sia nel superamento dello stigma sociale improntato a una soggettività della performance che spesso ostacola, invece che includere, i percorsi professionali più ambiziosi alle categorie di lavoratori più fragili, tra i quali troviamo i DSA.

Una lettura consigliata: Che cos’è la dislessia, Maria Luisa Lorusso, Carocci editore (2016)


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