A Christmas Carol: può un racconto di Natale parlarci delle sorti del Pianeta?

Il Canto di Natale (1843) è una tra le più celebri opere di Dickens. Il messaggio affidato dall’autore a quest’opera tuttavia va ben oltre la simbologia fantastico-religiosa e gli intenti di redenzione personale, tracciando dei collegamenti diretti con la politica economica e assistenziale del suo tempo, in chiave satirica.


Tutti conoscono la storia dell’infido banchiere londinese Ebenezer Scrooge, che come un “Grinch” ante-litteram rifugge il Natale e tutte le gioie della vita di cui esso è simbolo, come la peste. Allo stesso modo, tutti ne conoscono il finale capovolto, in cui, grazie a degli spaventi sufficientemente grossi – e a una buona dose di anticipazioni peggiori che mai sul suo futuro di dannazione – il vecchio e burbero Scrooge si trasforma non in un uomo buono, ma “normale”, recuperando il buon cuore che per lunghi anni aveva lasciato impietrire dall’avarizia. 

«“And the Union Workhouses” demanded Scrooge. “Are still in operation? …If they would rather die” said Scrooge, “they had better do it, and decrease the surplus population” ».

Un affresco della società Vittoriana 

Già al primo sguardo, la storia di Dickens ci parla del suo tempo, dominato dall’interesse capitalistico della borghesia e realizzato nella gigantesca massificazione operaia da esso prodotta, che generò come conseguenza principale un innalzamento della soglia di povertà senza precedenti. 

Londra era praticamente divisa in due, quartieri signorili da un lato e workhouses dall’altro. Queste ultime, situate nella cosiddetta Darkest London, famosa per essere la parte della città più densamente popolata, per non dire sovraffollata, a causa della massa operaia che lì viveva con le famiglie insieme allo strato più basso della popolazione dedito alla criminalità e alla prostituzione. 

Nei vicoli degli slums (bassifondi) come Whitechapel o St. James – nella East London – nessun onesto cittadino si sarebbe mai avventurato, tanta era la sporcizia e il degrado, oltre che la pericolosità, di queste aree urbane. 

Mentre gli slums esistevano già nel Settecento, con l’avvio dell’industrializzazione e la conseguente crescita demografica esponenziale, le workhouses vennero istituite con un provvedimento legislativo: la New Poor Law, legge emanata nel 1834 (solo nove anni prima della pubblicazione del Canto di Natale di Dickens) con l’intento di combattere il dilagare della povertà.

Ben presto fu chiaro che nulla di tutto ciò fu realizzato, a motivo della negazione che la povertà fosse una condizione di degrado subita, idea largamente diffusa dalla mentalità vittoriana dell’epoca di Dickens. 

Charles Dickens

Le workhouses si trasformarono infatti in veri e propri lager in cui le famiglie venivano divise, destinando uomini, donne e bambini a lavori diversi e a diversi istituti. Postulato base di queste istituzioni era che i poveri vi potessero trovare vitto e alloggio in cambio del proprio lavoro, in modo da poter migliorare da sé stessi la propria condizione sociale. La cruda realtà era al contrario che scegliere di entrare in una workhouse era come scegliere di entrare volutamente in prigione e a essa ben si preferiva l’accattonaggio.

“L’umanità inutile” come status sociale 

Storicamente tali idee fanno riferimento alla morale protestante e all’utilitarismo filosofico secondo cui ogni uomo è artefice del proprio destino e il successo è esclusivo risultato di un impegno personale – tralasciando il piccolo dettaglio che le condizioni di partenza e le pari opportunità non sono e non erano distribuite in modo omogeneo. 

Il confronto ideologico di maggior spessore, le cui frasi ed idee sono l’emblema stesso del prototipo umano di Scrooge, è l’economista e matematico Robert Malthus, famoso per la sua teoria della “crescita zero” (zero-growth philosophy), la quale si fonda sul postulato della crescita della produzione in senso aritmetico mentre la crescita della popolazione avviene in senso geometrico (esponenzialmente rispetto alla prima). 

Malthus traccia in tal modo i contorni di un destino di depauperamento progressivo e ineluttabile dell’umanità che, secondo una logica improntata a un rigido determinismo, sarà alla base di crisi sempre più gravi delle risorse, fino a un sostanziale tracollo, ossia un livello di sviluppo insostenibile e per la stessa società industriale e per il Pianeta.

Malthus per le sue idee ciniche riguardo quella “umanità inutile” (espressione del filosofo Yuval Noah Harari) che la povertà di massa e la fragilità sociale in genere rappresentavano, venne notoriamente definito come l’uomo più odiato del suo tempo. Dalle pagine di Dickens infatti apprendiamo quanto scalpore e rilevanza cominciassero ad avere questi temi presso le classi agiate, ormai troppo imbarazzate dal trattare la questione della povertà come polvere da nascondere sotto a tappeti di perbenismo e falsa carità.

Ma le idee di Malthus non sono rimaste lettera morta dall’età vittoriana ad oggi – al contrario! – rappresentano ancora una determinante impostazione teorica a partire dalla quale si sono evolute le ricerche che compongono il Rapporto sui limiti dello sviluppo, commissionato dal MIT (Massachusset Institute of Tecnology) al Club di Roma e pubblicato nel 1972: “Il rapporto, basato sulla simulazione al computer World3 predice le conseguenze della continua crescita della popolazione sull’ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana”.

La strategia “capitale” individuata dal rapporto, in assoluta continuità con le teorie di Malthus, è il controllo delle nascite. Potrebbe sorprendere non poco che a margine di un’opera sul Natale, che di un Santo Bambino narra la venuta, ieri come oggi, nelle workhouses o nelle politiche favorevoli all’aborto incentivate soprattutto dai paesi occidentali e densamente urbanizzati e industrializzati, le nascite siano stigmatizzate come fons et origo del tracollo dell’umanità.

La strategia di una programmazione familiare in cui ogni famiglia abbia massimo due figli, in modo da mantenere inalterato l’aumento della popolazione, si trova inoltre al punto 7 dell’update del rapporto sui limiti dello sviluppo che, nel 2004 – a trent’anni di distanza dal primo – è stato pubblicato da Donella Meadows, Dannis Meadows e Jorgen Randers, gli stessi scienziati che nel ’72 avevano creato il modello word3 per la simulazione degli effetti dell’impatto umano sul pianeta. 

Lo spirito del Natale 

L’approfondimento di queste tematiche che sembrano averci portato ancora una volta lontano dallo spirito del Natale, può tuttavia rappresentare uno spunto essenziale per domandarci quale sia, nell’era della programmazione dello sviluppo umano, l’idea di libertà – se ancora per essa vi sia spazio – comunicata da questo Avvento. 

È ancora possibile credere nella vita umana come evento inatteso e profondamente misterioso, i cui destini sfuggono a qualsiasi programma e a volte controllo e, per ciò stesso, risultato di un destino che si radica su questa terra per ambire a qualcosa di più e di meglio della sopravvivenza? L’intima sensazione di felicità che Scrooge finalmente può sperimentare nell’atto di fare del bene non ha spiegazioni né ragioni sufficienti, né coincide con il tradizionale scambio dei doni cui troppo spesso si riduce l’entusiasmo dei festeggiamenti natalizi.

Scrooge sperimenta una libertà e una leggerezza senza precedenti nel donare infatti a chi non ha i mezzi per contraccambiarlo, al suo impiegato Bob Cratchit «al quale dava uno stipendio da fame» e che per giunta ha un figlio malato, il piccolo Timmy. 

Con un’opera mirabile di satira e fantasia, Dickens riesce a inserirsi nel dibattito del suo tempo e a smascherare col sorriso il volto di morte che si cela dietro il pensiero calcolatore di molti insensibili analisti del suo tempo, preoccupati verosimilmente che dal miglioramento delle condizioni di vita delle masse, quelle delle classi più agiate avrebbero, di riflesso, subito anch’esse un adattamento a ribasso. 

L’augurio più veritiero è dunque l’auspicio che anche nel nostro tempo sorgano nuovi Dickens capaci di comunicare lo spirito critico di un’intera epoca e di combattere i nuovi e vecchi volti del cinismo, con la satira. 


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Veronica Sciacca

Fin dai banchi di scuola, innamorata della scrittura. Mi piace il ritmo e la verve teatrale, mangiare sano e tirare qualche colpo al sacco.