Azioni, reazioni ed effetti delle sanzioni alla Russia

Quali sono gli obiettivi delle sanzioni che l’Occidente ha imposto alla Russia? Stanno funzionando? Quali sono state le contromisure adottate dalla Russia?


L’Europa, gli USA e i partner della Nato, in prima battuta, e Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda, in un secondo momento, hanno di comune accordo deciso, a seguito dell’attacco russo in Ucraina, di procedere all’attuazione di una serie di sanzioni economiche contro Mosca e la leadership della Federazione russa. 

Le sanzioni fino ad oggi applicate impattano su vari aspetti dell’economia russa. Dal congelamento da parte dei paesi occidentali dei beni della Banca centrale russa al fine di impedirle di usare le riserve in valuta estera all’esclusione dal sistema di scambi finanziari internazionali Swift di alcune delle principali istituzioni finanziarie russe; dalle sanzioni per gli oligarchi russi al divieto di vendita di beni di lusso; dalle decisioni restrittive sulle importazioni di petrolio al divieto di volo nello spazio aereo di USA, Regno Unito, UE e Canada per le compagnie aeree russe.

Tenuto conto del contesto macroeconomico russo che contrappone un significativo attivo delle partite correnti − ossia la differenza (positiva) tra il valore dell’export e quello dell’import di materie prime − a una bassa crescita e un continuo deprezzamento del rublo − entrambi sintomi di importanti debolezze strutturali figlie della lunga convalescenza ancora in atto dopo la crisi del 2014 − le sanzioni occidentali si pongono tre chiari obiettivi

– provocare una significativa recessione;
– limitare le politiche di stabilizzazione del rublo;
– generare alta inflazione.

L’impianto sanzionatorio, così costruito, ha messo la Banca centrale russa nella scomoda posizione di non poter attuare una politica monetaria che riesca a contrastare tutti gli effetti delle sanzioni erogate .

Infatti, seppur le politiche monetarie dovrebbero portare alla stabilizzazione dei cicli economici e al raggiungimento dei target d’inflazione, nello scenario post-sanzioni, la Banca centrale russa si è trovata nella condizione di dover scegliere se attuare politiche monetarie espansive per difendersi dalla recessione o se reagire al deprezzamento del rublo, a cui si è assistito nei giorni immediatamente successivi allo scoppio del conflitto attraverso un brusco innalzamento dei tassi e limiti alla circolazione dei capitali.

Contromisure russe

La scelta della Banca centrale di Mosca è ricaduta sulla difesa della moneta e delle dinamiche inflattive, portando lo scorso 28 febbraio il tasso di rifinanziamento principale dal 9,5 al 20 per cento, accettando quindi il costo recessivo della disinflazione. Contestualmente il legislatore russo ha dato vita a numerose leggi e pacchetti “anti-sanzione” a supporto del rublo, che vanno dal controllo dei capitali − tra cui il congelamento degli asset detenuti da investitori non residenti e l’obbligo per le società russe di convertire in rubli l’80 per cento delle valute estere detenute − alla richiesta di convertire i pagamenti in valuta straniera delle forniture di gas in rubli.

Grazie a tutte queste misure a sostegno del rublo, dopo il crollo nelle prime settimane di guerra, il valore della moneta di Mosca ha superato i livelli precedenti all’apertura delle ostilità, conseguendo l’attuale primato di essere una tra le monete più performanti del mondo. 


sanzioni economiche russia

A inizio marzo, poco dopo lo scoppio del conflitto, i tassi di cambio della valuta russa sono crollati. Un dollaro statunitense è passato da circa 76 a circa 120 rubli, mentre un euro è passato da circa 86 a circa 133 rubli. Alla data del 24 maggio un dollaro statunitense valeva circa 57 rubli − per trovare un tasso di cambio più favorevole serve tornare al marzo del 2018 − mentre un euro valeva circa 60 rubli, il valore minimo degli ultimi 5 anni. 

Il giornalista Eduard Steiner ha spiegato che «mentre il rublo forte è efficace a scopo dimostrativo, in realtà sta diventando un problema per l’economia». Una moneta così forte «risulta essere uno svantaggio, soprattutto per il bilancio dello Stato» e «per le società orientate all’export, che spendono sul mercato interno in rubli». Inoltre l’eliminazione delle misure di controllo dei capitali senza una normalizzazione delle relazioni con l’occidente, potrebbe far collassare la moneta causando grossi problemi per l’economia. 

Consapevoli dell’effetto boomerang che nel medio periodo potrebbe avere il “doping valutario” in atto, la Banca centrale russa, dopo il brusco innalzamento dello scorso 28 febbraio del tasso di rifinanziamento principale, ha progressivamente ridotto i guadagni del rublo procedendo per ben tre volte al taglio del tasso di interesse:

– l’8 aprile ha tagliato i tassi di interesse dal 20 al 17 per cento;
– il 29 aprile ha tagliato i tassi di interesse dal 17 al 14 per cento;
– il 26 maggio ha tagliato i tassi di interesse dal 14 all’11 per cento.

Ogni taglio dei tassi ha provocato una flessione immediata del rublo, seppur limitata grazie alle altre misure ancora in atto. Da ultimo, all’indomani del terzo taglio dei tassi di interesse, un dollaro statunitense valeva circa 66 rubli, mentre un euro valeva circa 72 rubli. Rispetto alla miglior performance registrata della valuta russa lo scorso 24 maggio, si è assistito quindi a una variazione pari a circa il 15 per cento nei confronti del dollaro e il 20 per cento nei confronti dell’euro.

Per quanto riguarda l’inflazione, se di norma una valuta forte si dovrebbe tradurre in una riduzione della pressione inflazionistica, questo non accade nel caso dell’economia russa sempre più isolata. Soprattutto a causa della scarsità dei beni, il tasso di inflazione è infatti vicino al 18 per cento, tanto che Putin è corso ai ripari annunciando un aumento del 10 per cento delle pensioni e del salario minimo. Una manovra da circa 10 miliardi di dollari.

Sempre sul tema inflazione, nella nota che accompagna l’ultima decisione di politica monetaria, l’istituto di Mosca, come riportato dall’ANSA, afferma che «gli ultimi dati settimanali evidenziano un significativo rallentamento dell’attuale tasso di crescita dei prezzi. Le pressioni inflazionistiche si allentano in scia alle dinamiche del tasso di cambio del rublo e al rilevante declino delle aspettative di inflazione di famiglie e imprese. Ad aprile l’inflazione annuale ha raggiunto il 17,8 per cento, tuttavia, in base alle stime al 20 maggio, ha rallentato al 17,5 per cento, diminuendo più velocemente che nelle previsioni di aprile».

Rispetto a possibili ulteriori tagli dei tassi, la Banca centrale russa «prenderà in considerazione le dinamiche di inflazione attuali e attese relative al target e ai processi di trasformazione economica, come pure i rischi posti dalle condizioni domestiche ed esterne e la reazione dei mercati finanziari» e si attende una riduzione dell’inflazione al 5-7 per cento nel 2023 e al 4 per cento nel 2024. Nella nota l’istituto di Mosca riconosce tuttavia che «le condizioni esterne per l’economia russa sono ancora sfidanti, limitando in modo considerevole l’attività economica» mentre «i rischi di stabilità finanziaria sono in qualche modo scesi, consentendo un allentamento delle misure di controllo dei capitali».

Gli effetti delle sanzioni alla Russia

Secondo un’analisi sullo Spectator di Wolfgang Münchau, «le sanzioni non stanno funzionando, almeno non nel modo in cui avrebbero dovuto» o meglio secondo i propositi di chi le ha varate. Un ruolo fondamentale è da ascrivere all’attivo delle partite correnti.

La Russia, dallo scorso febbraio, ha smesso di pubblicare statistiche mensili dettagliate sul commercio, ma le cifre dei suoi partner commerciali possono essere utilizzate per capire cosa sta succedendo. Dall’inizio dell’invasione, secondo quanto riportato dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), il valore dell’export, nonostante le sanzioni, è incrementato di circa 8 punti percentuali rispetto al periodo corrispondente del 2021, complice soprattutto l’incremento dei prezzi dell’energia e la sostanziale stabilità delle forniture. Di contro, il valore dell’import ha subito una significativa contrazione pari a circa il 44 per cento. 

Secondo l’Institute of International Finance, l’avanzo delle partite correnti nel 2022 potrebbe arrivare a 250 miliardi di dollari, oltre il doppio rispetto ai 120 miliardi di dollari registrati nel 2021. 

Mosca nel lungo periodo soffrirà senza dubbio dell’impossibilità di acquistare beni e componenti tecnologiche dall’Occidente, affrontando un periodo di recessione, ma l’economia reale, come scrive il The Economist, «si è rivelata sorprendentemente resiliente». 

La Russia è una grande potenza mondiale con una fitta rete di rapporti internazionali nei confronti della quale le sanzioni, nella migliore delle ipotesi, costituiscono un’arma di logoramento, anziché di deterrenza. Guardando al passato, le sanzioni utilizzate nella prima metà del secolo scorso intimorirono piccoli Stati come Grecia e Jugoslavia, ma non scoraggiarono la potenza imperiale giapponese e il regime fascista italiano.

Come sottolineato da Nicholas Mulder, professore di storia alla Cornell University, sulle colonne del Wall Street Journal, purtroppo le dimensioni giocano un ruolo cruciale, e «se l’obiettivo è quello di paralizzare un paese ricco di risorse naturali e con un grande esercito, come la Russia, allora le sanzioni hanno una limitata utilità». Diverso è il ruolo che queste potrebbero avere durante i negoziati di pace.

Tuttavia, va comunque considerato che se da un lato ci sono circa 400 miliardi di dollari di asset della Banca centrale russa congelati sui quali poter far leva, dall’altro ci sono circa 446 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri in Russia e altri circa 120 miliardi di dollari di investimenti finanziari, che Putin potrebbe nazionalizzare da un momento all’altro con l’ennesimo coup de théâtre.

Serve una lungimirante diplomazia, perché, riprendendo le parole di Mulder, «ci vorranno mesi, se non più, per sentire i danni provocati dalle sanzioni».