Trovare la morte all’interno dei Cpr: la storia di Moussa Balde

Il 23 maggio 2021 Moussa Balde si toglieva la vita all’interno del Cpr di Torino, abbandonato dallo Stato che specula sulla pelle dei migranti a discapito dei diritti fondamentali.


Il 23 maggio 2021, Moussa Balde, giovane appena ventitreenne originario della Guinea, si toglieva la vita all’interno del “Brunelleschi”, Centro permanente per il rimpatrio (Cpr) di Torino.

Moussa Balde è una delle oltre 24 mila vittime dei respingimenti al confine italo-francese di Ventimiglia avvenuti nel 2021 e, il giorno precedente la sua “cattura”, era stato accerchiato e picchiato con spranghe, pugni e calci da tre italiani. La sua condizione di parte offesa è stata presto dimenticata perché per lo Stato italiano Moussa Balde non era una vittima, ma un immigrato irregolare, sprovvisto di permesso di soggiorno, e in quanto tale non aveva diritto a ottenere giustizia.

Rinchiuso dal 10 maggio nonostante una prognosi di 10 giorni e un trauma dovuto al pestaggio selvaggio subito, il giovane non ha ricevuto alcun sostegno psicologico. «Il suo avvocato ci aveva segnalato la sua situazione, avremmo dovuto incontrarlo il martedì successivo, il 25 maggio, ma non abbiamo fatto in tempo» ha ricordato Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino.

Il suo suicidio ha spinto la Procura di Torino ad avviare un’inchiesta sulle modalità di gestione del centro, con l’iscrizione nel registro degli indagati della direttrice, del medico della struttura e di nove agenti.

La storia di Moussa Balde non è un caso isolato. Da giugno 2019 ad oggi, sei persone hanno perso la vita mentre si trovavano sotto la responsabilità dello Stato italiano all’interno di quelli che il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha definito «involucri vuoti».

I Cpr sono stati istituiti nel 1998 dal Governo centrosinistra di Prodi, con la legge sull’immigrazione Turco-Napolitano. Attualmente sono dieci i centri operativi sul territorio italiano. Essi si trovano a Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma-Ponte Galeria, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo e Caltanissetta-Pian del Lago, e presentano tutti le medesime caratteristiche. Si tratta di luoghi di trattenimento dei migranti definiti irregolari in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione.

In origine le persone potevano essere trattenute per un periodo massimo di 30 giorni. Oggi, dopo una serie di estensioni – nel 2011 il governo Berlusconi ha esteso a ben 18 mesi il tempo limite di trattenimento – la durata massima di permanenza è fissata dalla legge europea 2013 bis e non può superare i tre mesi.

Il continuo tentativo dei vari governi di estendere a dismisura i tempi di permanenza dei migranti all’interno dei centri permanenti di rimpatrio avrebbe una matrice prettamente economica. Nel Rapporto Buchi neri. La detenzione senza reato nei CPR, la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild), rete di 43 organizzazioni della società civile che si occupa degli ultimi e degli emarginati, denuncia la trasformazione della detenzione amministrativa in una «filiera molto remunerativa». 

Lo Stato non si occupa direttamente dei Cpr, ma la loro gestione materiale è devoluta a soggetti terzi, molto spesso grandi multinazionali, attraverso gare d’appalto basate sul criterio della scelta dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Nell’ultimo triennio sono stati spesi circa 44 milioni di euro, prelevati dalla finanza pubblica e attribuiti a soggetti privati per la gestione dei Cpr attualmente attivi in Italia.

Si è determinata una situazione nella quale alla ricerca della massimizzazione del profitto da parte delle imprese si accompagna la continua spinta alla minimizzazione dei costi da parte dello Stato. Una vera e propria speculazione che avviene sulla pelle di donne e uomini reclusi, molto spesso senza alcun oggettivo pericolo per la sicurezza dello Stato italiano e dei suoi cittadini.

L’offerta economicamente più vantaggiosa infatti non sempre corrisponde alla scelta migliore in termini di qualità dei servizi erogati. Spesso non viene garantita l’assistenza sanitaria minima, e frequentemente i gestori privati diminuiscono le ore di copertura dei servizi medici, infermieristici e di supporto psicologico al fine di risparmiare denaro. I bagni sono in condizioni igieniche disastrose, privi di porte (e conseguentemente di privacy) e l’acqua calda non è sempre garantita.

Il Cild ha indagato sull’effettiva tutela dei diritti fondamentali all’interno dei Cpr e il quadro emerso è desolante. I centri vengono descritti come luoghi «drammaticamente inumani, caratterizzati da uno strutturale stato di eccezione». L’eccezione di una detenzione senza reato e senza il rispetto delle garanzie e dei principi propri del diritto penale. Molto spesso all’interno dei Cpr non vengono rispettati nemmeno gli standard fissati dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura.

Secondo il rapporto Delle pene senza delitti, stilato in seguito all’ispezione condotta dai senatori Gregorio De Falco e Simona Nocerino, insieme agli attivisti della rete Mai più lager-No ai CPR, i Cpr sono «una struttura carceraria per persone innocenti, ma con ancora meno diritti di quelli garantiti ai reclusi del sistema penitenziario, dove per giunta si capita (è il verbo corretto) senza che venga celebrato alcun processo». Un vero paradosso.

Moussa Balde è stato vittima di un sistema dove l’arricchimento, celato dietro vane promesse di sicurezza nazionale, prevale sui diritti dell’essere umano. Il giovane guineano è stato rinchiuso all’interno dei Cpr senza aver commesso alcun reato e senza alcuna valutazione preliminare sulla sua idoneità psichica, nonostante l’accertamento della aggressione subita.

All’interno dell’istituto torinese il giovane è stato immediatamente privato del telefono cellulare, senza avere la possibilità di comunicare ed è stato collocato nei cosiddetti “ospedaletti”, ossia vere e proprie celle di isolamento separate dalle altre aree, lontane dagli uffici e dall’infermeria, dove secondo l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) le persone «camminano sull’orlo del burrone».

Moussa Balde è morto solo, abbandonato alla mercé delle sue peggiori paure e da uno Stato che avrebbe dovuto proteggerlo. Uno Stato che, al contrario, non ha mostrato alcun interesse e rispetto verso la sua vita.


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