Il ciclico imperativo di una difesa comune

Tra atti di impulso politico proattivo e brusche battute di arresto, il dibattito europeo sulla difesa comune si scontra con la mancanza di una visione condivisa delle priorità, degli obiettivi e delle strategie nel settore della politica estera.


Nell’ambito del diritto pubblico, storicamente, il settore della difesa costituisce una delle più alte forme di espressione della sovranità, il cui monopolio è affidato allo Stato. Non sorprenderà, pertanto, la reticenza propria dei governi a cedere competenze in questo campo, il quale, più degli altri, riflette il peso e l’influenza di un Paese nello scacchiere geopolitico globale. 

Se si guarda alla prassi delle organizzazioni internazionali, le forme di cooperazione intergovernativa volte a creare un sistema di collaborazione socio-politica tra Stati membri, integrando anche iniziative nell’ambito della difesa, non hanno prodotto risultati particolarmente efficaci. 

Tipico esempio di questa prassi è rappresentato dalle Nazioni Unite: al momento della loro istituzione, si riteneva che esse potessero dotarsi di un proprio esercito, per tutelare l’ordine internazionale e promuovere la giustizia sociale; eppure tale iniziativa non ha mai avuto seguito e gli Stati membri, piuttosto, si sono limitati a unire contingenti militari nazionali, principalmente nella cornice delle operazioni di peacekeeping. 

Volgendo lo sguardo al contesto regionale europeo, il progetto di una difesa comune, nel complesso, si distingue per la sua ciclicità, caratterizzata da reiterati atti di impulso politico proattivo, seguiti da brusche battute di arresto. 

L’idea di una difesa comune, attuata mediante la costituzione di un esercito europeo, è da ricondurre al 1952, nell’ambito del progetto di istituzione della Comunità Europea di Difesa (CED). L’iniziativa è stata promossa dal Primo Ministro francese René Pleven e, successivamente, si è arenata per ragioni eterogenee, tra cui la volontà della Francia stessa.

Il Piano Pleven – redatto da Jean Monnet – prevedeva la costituzione di un esercito comune, strutturato su sei divisioni, guidato dall’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e gestito da un Ministro europeo della Difesa, nel quadro delle Istituzioni della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA).

In quel contesto, la CED era fortemente voluta dagli Stati Uniti, sia in funzione anti-sovietica, sia in considerazione del ruolo cruciale affidato alla NATO, che avrebbe garantito la partecipazione degli USA nella politica estera europea e, con buona pace dei francesi, il riarmo controllato della Germania, nei soli limiti di un esercito integrato.

La morte di Stalin e numerosi problemi interni alla Francia – tra cui le questioni connesse alla guerra in Indocina – hanno fatto sì che il progetto di una difesa comune non avesse seguito. Sottoposto alle procedure di ratifica nei rispettivi Stati firmatari, il Trattato istitutivo della CED ha riscontrato numerose resistenze ed è definitivamente fallito in seguito al rigetto espresso dall’Assemblea francese nel 1954, seguito, poco dopo, da quello italiano. 

Tralasciando in questa sede il ruolo della Comunità nell’ambito degli equilibri geopolitici della Guerra Fredda, i fenomeni drammatici connessi alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia Federale, agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, hanno imposto l’intervento della NATO e hanno reso evidente la necessità di un cambiamento. Ha fatto seguito, pertanto, l’istituzione di una Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), avvenuta soltanto con il Trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1993, cui, per qualche anno, non hanno fatto seguito mutamenti sostanziali nelle prassi dell’UE.  

Nell’ambito di un rinnovato impegno nel settore della difesa, il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 ha istituito una European Rapid Reaction Force (ERRF) e, nel 2000, un progetto di difesa comune nel quadro della PESC. 

Nel complesso, la ERRF è stata avviata con numeri di gran lunga inferiori rispetto a quelli previsti dal suo programma istitutivo. Strutturata nel rispetto dell’autonomia delle singole Forze Armate, nonostante la gestione e il coordinamento unitari, si è affiancata alle forze di Reazione Rapida istituite dagli Stati Uniti in seguito all’attentato alle Torri Gemelle, ma si è comunque limitata a svolgere una funzione prevalentemente integrativa rispetto alle iniziative promosse dal quadro della NATO. 

Il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, ha sostanzialmente mantenuto il carattere intergovernativo della politica estera europea: la difesa comune si esaurisce nel quadro nella NATO e gli Stati membri continuano a detenere la sovranità principale in tema di sicurezza e difesa, gravando su di essi solo un generico dovere di coordinamento e coerenza, cui non sempre è stato dato seguito. 

Proprio in ragione del carattere intergovernativo della PESC, con conseguente prevalenza degli organi rappresentativi degli interessi degli Stati e del sistema di voto all’unanimità, il Trattato di Lisbona ha previsto uno strumento giuridico specifico, al fine di superare le difficoltà connesse al predetto modello di cooperazione. 

In particolare, ricalcando il concetto di Europa a più velocità, il Trattato dispone che un gruppo di Stati membri che intenda procedere con l’integrazione nell’ambito della sicurezza e della difesa possa istituire una Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO). Tale iniziativa ha avuto seguito solo nel dicembre del 2017, quando il Consiglio ha adottato una decisione per l’istituzione della PESCO, cui hanno aderito tutti gli Stati membri dell’UE, ad eccezione di Danimarca e Malta. 

Attualmente esistono 47 progetti avviati nel quadro della PESCO, cui il Consiglio ha attribuito specifiche regole di governance per un loro efficace svolgimento. Le iniziative riguardano prevalentemente i settori della formazione e dello sviluppo della capacità operativa terrestre, marittima ed aerea, così come della cybersecurity. 

Più recentemente, nel novembre 2020, il Consiglio ha fissato delle condizioni generali affinché, in casi eccezionali, i Paesi terzi possano aderire a singoli progetti istituiti nell’ambito della PESCO, rafforzando una cooperazione aperta in materia di sicurezza e difesa. Nonostante gli sforzi istituzionali e l’impegno della società civile e delle Organizzazioni Non Governative (ONG), l’azione dell’Unione Europea nella risposta alle crisi internazionali continua ad essere particolarmente inefficace.

Ne è prova, ad esempio, l’incapacità dell’Unione di fronteggiare il progressivo deterioramento dei diritti e delle libertà fondamentali in Bielorussia – Paese, peraltro, coinvolto nel quadro della Politica Europea di Vicinato – ma si rivela esemplificativo, al riguardo, anche il rapporto che l’UE ha condotto con la Turchia, nei cui riguardi non solo non si è riusciti a impedire un’involuzione democratica, ma si è giunti sino al rischio di essere ostaggio di Ankara, per via dell’Accordo concluso nel 2016 per la gestione dei flussi migratori provenienti dalla Siria. 

Nel contesto attuale, alle questioni citate se ne aggiungono molte altre, tra le quali le sollecitazioni provenienti dalla crisi in Afghanistan, che rivela proprio i limiti di una difesa comune esauritasi, negli anni, nell’ambito della NATO e sulla scia delle scelte di politica estera statunitense. 

Quel che sembra mancare, per attuare una difesa comune, è una condivisa visione delle priorità, degli obiettivi e delle strategie nel settore della politica estera; in altri termini, manca del tutto un progetto concreto comune per il quale gli Stati membri siano disposti, letteralmente, a “lottare insieme”, perseguendo i medesimi interessi. Sembra che, alla fine, il centro della questione si risolva sempre nell’antico limite del voto all’unanimità e del sistema intergovernativo che governa la PESC. 

L’interrogativo, dunque, è sempre il medesimo, ben messo in evidenza nelle recenti dichiarazioni del Ministro della Difesa sloveno: «Per i piccoli Stati, come la Slovenia, l’unanimità è importante, ma qualche volta bisogna decidere cos’è più importante: agire in fretta o restare bloccati con l’unanimità?». Certo è che, seppur si superasse il limite del veto e si provvedesse ad un’estensione del sistema della maggioranza qualificata, ci si doterebbe di uno strumento procedurale volto a impedire il blocco delle decisioni in questo settore, ma la sua effettiva attuazione dipenderebbe comunque da una convergenza degli interessi degli Stati membri e da una comune visione dell’Unione Europea quale leader sul piano internazionale.