La battaglia delle calciatrici statunitensi contro il gender pay gap

Continua la battaglia delle calciatrici statunitensi contro la US Soccer Federation, accusata di portare avanti una politica apertamente discriminatoria nei confronti di quelle che sono, dati alla mano, le sue migliori giocatrici.


Nel marzo 2019 ventotto giocatrici della nazionale femminile di calcio hanno fatto causa alla US Soccer Federation, guidata all’epoca da Carlos Cordeiro, per chiedere e ottenere parità di trattamento e di retribuzione. 

Le calciatrici statunitensi chiedono più di 66 milioni di dollari (circa 55 milioni di euro) a titolo di risarcimento danni, ai sensi dell’Equal Pay Act e del titolo VII del Civil Rights Act del 1964, nonché la retribuzione arretrata non corrisposta. La causa iniziale ha finito poi per includere chiunque dal 2015 abbia fatto parte della squadra femminile. La loro storia è al centro del documentario “LFG” (abbreviazione del grido di battaglia della squadra) dei registi Andrea Nix Fine e Sean Fine. 

La Federazione calcistica statunitense è accusata di portare avanti una politica apertamente discriminatoria nei confronti di quelle che sono, dati alla mano, le sue migliori giocatrici. Con quattro titoli mondiali (1991, 1999, 2015 e 2019) e quattro medaglie d’oro olimpiche (1996, 2004, 2008 e 2012), la nazionale di calcio femminile Usa è infatti la squadra di calcio internazionale di maggiore successo nel mondo. 

Al di là dei successi ottenuti sul campo, le calciatrici statunitensi rappresentano una grande fonte di guadagni per la US Soccer, perché attirano negli stadi molti più spettatori e di conseguenza permettono la vendita di più biglietti. Dai bilanci risulta infatti che la nazionale femminile di calcio, tra il 2016 e il 2018, ha portato nelle casse delle Federazione entrate per 50,8 milioni di dollari (circa 42,9 milioni di euro). Nello stesso periodo, la nazionale maschile ha determinato entrate di circa 900mila dollari inferiori. 

Nonostante ciò, le calciatrici sono ancora oggi pagate di meno rispetto ai loro colleghi uomini: 89 centesimi per ogni dollaro pagato agli uomini. Anche i premi in denaro e i bonus vittorie loro spettanti sono di entità inferiore. La squadra femminile statunitense ha guadagnato 90.000 dollari per aver raggiunto i quarti di finale della Coppa del Mondo, ma se lo stesso risultato fosse stato raggiunto dalla squadra maschile i giocatori avrebbero avuto diritto ad una somma sei volte superiore.

Il divario retributivo denunciato dalla nazionale femminile non ha quindi nulla a che fare con le effettive prestazioni, ma è il frutto di una società patriarcale che continua a discriminare le donne in ogni campo e ambito della vita e della quale anche le donne di maggior successo possono essere vittime. Il Congress Joint Economic Commitee, la commissione economica del Congresso, in un rapporto ha sottolineato come ci siano “inspiegabili differenze di retribuzione”, denunciando fattori di scelta parziali e irrazionali “non misurabili” e spesso motivati da “motivi discriminatori”. 

In occasione del Women’s Equal Pay Day, la star del calcio americano Megan Rapinoe ha ricordato come la discriminazione di genere colpisca le donne a ogni livello. Durante un’udienza all’House Oversight Committee, la calciatrice ha affermato: “non esiste un livello di status, e non c’è successo o potere che ti protegga dalle grinfie della disuguaglianza o essere abbastanza eccellenti da sfuggire a qualsiasi tipo di discrimazione”.

Salari più bassi comportano pesanti conseguenze sulle vite delle calciatrici, che hanno necessità di svolgere un secondo lavoro alternativo per garantire il proprio sostentamento e quello delle loro famiglie. Le calciatrici, rispetto ai loro colleghi, sono quindi condannate ad avere meno soldi, meno beni, più debiti e pensioni ridotte. 

La battaglia della nazionale femminile non è passata inosservata, ma ha suscitato una forte indignazione nazionale, avendo il calcio femminile negli Stati Uniti una lunga tradizione di vittorie e di successi. Un’importante testimonianza di quanto sia sentita questa causa si è avuta in occasione della Coppa del mondo 2019, quando tra la folla di tifosi, accorsi a festeggiare la vittoria, è risuonato l’urlo “equal pay”.

Dalla parte delle calciatrici statunitensi si è schierata anche la nazionale maschile, con una dichiarazione congiunta: “la United States Soccer Federation pubblicizza le squadre nazionali maschili e femminili degli Stati Uniti con lo slogan ‘Una nazione, Una squadra’. Ma per più di trent’anni la Federazione ha trattato le giocatrici della nazionale femminile come cittadine di serie B, discriminando le donne con i loro stipendi e le loro condizioni di lavoro, pagandole meno dei giocatori della nazionale maschile, nonostante il calcio americano abbia goduto di un periodo di straordinaria crescita finanziaria. La Federazione non ha mai offerto o fornito parità di retribuzione alle donne e l’opinione contraria di un tribunale distrettuale non può essere conciliata con i fatti”. 

Nonostante il comune e generale sostegno, nel maggio 2020 il Tribunale Distrettuale ha respinto le richieste presentate dalle calciatrici, ritenendo che la nazionale femminile non sia riuscita a dimostrare di aver ricevuto una retribuzione diseguale. In particolare la Corte ha sostenuto che tutti i giocatori venivano pagati secondo i termini dei contratti da loro firmati e di conseguenza le prestazioni superiori nulla influivano sui loro compensi. 

Contro questa sentenza, la nazionale femminile ha presentato appello, sostenuta dalla Commissione per le pari opportunità di lavoro, che ha presentato una memoria amicus curiae in suo sostegno. Anche l’organizzazione sindacale della squadra maschile USA, la US National Soccer Team Player Association, ha depositato una memoria amicus in favore della nazionale femminile. In caso di vittoria in appello, la causa potrebbe andare avanti e le calciatrici potrebbero finalmente ottenere la parità di retribuzione. 

In caso di successo, questa battaglia potrebbe rappresentare un faro di luce per le molte donne che oggi si ritrovano nella medesima posizione e che sono costrette ad accettare il divario salariale, determinato unicamente dal loro genere.