I pericoli dell’obbedienza: fino a dove ci si spinge per seguire l’autorità?

L’esperimento di Milgram del 1961 ci mostra come ognuno di noi potrebbe fare del male, in nome dell’obbedienza.


Quando pensi alla lunga e tenebrosa storia dell’uomo, troverai che molti crimini spaventosi sono stati commessi nel nome dell’obbedienza, più di quanti ne siano mai stati commessi in nome della ribellione» – Charles Percy Snow.

Quando guardiamo la violenza, quella cruda e cinica a cui i film ci hanno ormai abituati, tendiamo a percepirla come qualcosa di lontano dalla nostra personalità. 

Non ci mettiamo mai nei panni del carnefice perché non crediamo di essere in grado di fare del male a un altro essere umano. Eppure potremmo essere in torto. Forse siamo tutti potenzialmente carnefici, semplicemente non abbiamo dovuto scegliere se esserlo o meno.

Al tempo in cui gli orrori dell’Olocausto divennero di dominio pubblico è stato automatico chiedersi come uno Stato delle dimensioni della Germania possa essere impazzito completamente e contemporaneamente. Milioni di mostri senz’anima tutti concentrati in uno stesso territorio avevano messo in piedi una macchina di morte perfetta e asettica.

Nel 1961, poi, quando un uomo dalle sembianze più che normali rispondeva con freddezza e lucidità alle domande dei giudici a Gerusalemme sui propri crimini di guerra, la domanda si è trasformata. All’improvviso la pazzia collettiva non era più un’opzione, e l’alternativa faceva ancora più paura: «È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?».

Il primo a cercare di rispondere a questa domanda fu lo studioso di psicologia sociale Stanley Milgram. Con un esperimento che aveva l’obiettivo di studiare il comportamento di individui comuni di fronte all’autorità, la speranza era quella di poter rispondere con un sonoro “no” a questo spaventoso dilemma. Non andò così.

Nell’esperimento uno scienziato ordinava al soggetto, ignaro di essere studiato, di lanciare delle scosse elettriche, sempre più intense, a un secondo soggetto (un attore), nel caso in cui quest’ultimo avesse risposto in modo errato ad alcuni quesiti. 

L’esperimento di Milgram evidenzia un conflitto profondo tra ciò che ognuno di noi crede giusto o sbagliato e la nostra necessità di essere individui obbedienti. Ci mostra come dei comuni cittadini, convinti che sia sbagliato ledere il prossimo, una volta davanti all’autorità, in quel caso rappresentata dallo scienziato, siano disposti a mettere da parte la propria morale.

Circa i due terzi dei soggetti hanno obbedito, anche se, in alcuni casi, visibilmente in disaccordo con l’azione.

Questi risultati dovrebbero farci riflettere sui lati negativi dell’obbedienza. Questa, sebbene sia un pilastro importante dell’educazione e della vita in società, può rivelarsi pericolosa.

Lo studio di Milgram ne svela i rischi, dati dalla sua capacità di superare in modo vincente quel dubbio che si instaura in noi quando siamo di fronte a un’ingiustizia ma non crediamo di avere l’autorità per fermarla.

In un contesto di normalità non ci troveremo spesso di fronte a una scelta dalla quale dipenderà direttamente il benessere di qualcun altro, ma l’individuo che si ritrovi in un contesto autoritario, privato della propria autonomia, si convincerà di essere nient’altro che un agente che deve soddisfare ordini imposti da altri soggetti di status superiore al proprio. 

Gli esperimenti di Milgram mostrano l’inizio del processo di “socializzazione del male”, il momento in cui una persona comune, trovandosi all’interno di un contesto sociale stringente, arriva a compiere volontariamente atti mostruosi.

L’inizio del processo mostra il travaglio emotivo del soggetto che si trova in conflitto con la sua personalità morale: il processo si ritiene concluso quando egli compierà gli stessi atti in modo indipendente e senza alcun travaglio emotivo. Attraverso questo processo, un individuo può trasformarsi da semplice rotellina di un ingranaggio, ad autorità favorevole alla socializzazione di altri soggetti.

Dobbiamo ricordare che nelle situazioni nelle quali il male viene a compiersi non ci sono soltanto carnefici e vittime. Oltre a loro vi sono osservatori o persone che sono consapevoli di ciò che sta accadendo, i quali decidono di non intervenire, facendo sì che, a causa della loro inerzia, il male continui a persistere.

Ci vuole forza per intraprendere un’azione contro il male, per ribellarsi a esso, ma non dobbiamo sottovalutare le conseguenze della non azione. 

È necessario essere consapevoli del fatto che ogni mancata azione volta al bene è un’azione che spiana la strada al male. La paura che la sovversione allo status quo provoca in noi porta alla silente obbedienza e della pericolosità di questa abbiamo appena trattato. 

La cieca obbedienza è pericolosa in ogni momento storico, lo è stato in modo evidente durante la Seconda Guerra Mondiale, lo è ogni giorno quando la ciclicità della storia si mostra a noi durante il tg delle 20 e decidiamo di cambiare canale, o peggio, di continuare a guardare convinti che si tratti di avvenimenti troppo lontani dalle nostre vite da poterci toccare. Peccato che quegli avvenimenti siano vicini, riconoscibili ed evidenti, e che il male dell’inerzia sia il nostro pane quotidiano.