Dal 2001 il G8 resta una ferita profonda nella storia italiana

In un’Italia prima dei social network, durante il G8 di Genova avviene una “sospensione della democrazia” rimasta indelebile nella memoria di più e meno giovani. L’unica giustizia rimasta oggi: ricordare la repressione violenta dello Stato.


Vent’anni sono passati da quella Piazza Alimonda intrisa di sangue che puzza ancora. Vent’anni da quel boato assordante e dalle urla di rabbia e terrore. Ancora echeggiano le sirene, i petardi, i cori no global. Chi, come me, ha vissuto il G8 di Genova dagli schermi e dai telegiornali e che, già allora, nel 2001, aveva poco meno di 10 anni, ha capito che la narrazione di quelle violenze puzzava. Nasce così una certa diffidenza nelle divise, nell’ordine statale. Genova ha segnato tutti coloro che ai tempi degli avvenimenti potevano già creare una propria memoria.

Il G8 di Genova è la dimostrazione di come tutto un movimento può crollare davanti all’arroganza delle istituzioni che, oggi come allora, guardano al profitto in barba alle esigenze più basilari. Non guardano in faccia a nessuno: diplomatici, genitori, bambini, professionisti e facinorosi; l’obiettivo è l’ordine sociale, la repressione.

Vent’anni dopo i fatti di Genova si sentono le scuse di intellettuali ed esperti di settore, come una pulizia della coscienza, senza rispetto e senza sdegno. «Avevamo ragione noi», come dice Vittorio Agnoletto, all’epoca del G8 del 2001 il portavoce del Genoa Social Forum. E lo sapevamo già – noi giovani movimenti – di avere ragione, ma adesso sappiamo anche che siete – voi coi manganelli non autorizzati – dei vili impuniti e protetti dallo Stato. 

Come dice Agnoletto «i responsabili non hanno fatto neanche un giorno di galera. Questo è inaccettabile. Così com’è inaccettabile che le persone riconosciute responsabili di quelle violenze e di quelle torture, siano rimaste ancora all’interno degli apparati dello Stato in totale dispregio di quanto stabilito dalle regole europee». Senza contare che, inoltre, non c’è mai stato un processo per la morte di Carlo Giuliani. Una “sospensione dei diritti democratici” – come la definisce Amnesty International – insostenibile.

Dal 2001 in poi non ci sarà più giustizia nel cuore di chi lotta. Tutti sapevano le malefatte e la disorganizzazione delle autorità per contenere quell’ondata di persone che voleva solo una cosa sfilando per Genova: urlare che il mondo, in mano a quei potenti, sarebbe stato un posto infame e iniquo.

Nell’edizione de L’Espresso dell’11 luglio, Simone Pieranni racconta gli eventi immediatamente precedenti all’irruzione nella scuola Diaz. Racconta di depistaggi e dei reati di falso materiale e ideologico, racconta dell’omertà istituzionale da pelle d’oca, soprattutto se affiancata ai giorni di commemorazione per le vittime della mafia, oggi sono tutti uomini di legge e degni di senso civico. 

In quei giorni, in quelle settimane nel luglio 2001, tutti sapevano e nessuno ha mosso un dito. Era palese che l’intervento alla scuola Diaz sarebbe stata una mattanza organizzata, “macelleria messicana” l’hanno definita, una spedizione punitiva che ha chiamato a raccolta ogni agente e sezione speciale d’Italia.

Sono vent’anni che ci chiamano Black Bloc, No Global, Comunisti e Figli dei fiori, come se fossero appellativi dispregiativi, offensivi. Si continua ancora oggi a portare avanti una narrazione distorta, coperta da falsità e da giustificazioni. Dopo tanti anni ancora nessuno si prende le responsabilità di quegli eventi. Pochi procedimenti si sono conclusi con condanna; molti degli esponenti di quel periodo hanno proseguito la propria carriera politica e istituzionale, passando da “eroi” nei corridoi dei palazzi del potere.

Questo è il ventennale della pagina più oscura della Repubblica Italiana e bisogna ricordarlo non perché «avevamo ragione noi» ma perchè domani potrebbero esserci altri Carlo Giuliani, altri sgomberi “alla Diaz”, altri depistaggi e ostentazioni fasciste. 

Era un mondo non ancora “social” ed era un mondo senza migliaia di occhi tecnologici puntati sugli eventi. Bisogna quindi discutere per tutelare le generazioni di domani, di coloro che oggi hanno vent’anni o meno, ubriacati dalle narrazioni distorte o dal silenzio di alcune (forse anche tutte) compagini politiche.

«Speriamo che muoiano tutti… tanto uno già, vabbè, uno a zero per noi», così commentavano gli agenti in servizio quel 20 luglio prima di preparare l’assalto alla Diaz; ma Carlo vive nello spirito di chi non ha mai creduto che le bombe siano la soluzione ai problemi ma, nonostante tutto, in cambio, ha trovato solo violenza. Vive sono anche le urla di terrore degli ospiti della scuola Diaz. Viva è ancora la paura di manifestanti e cittadini che in quei giorni hanno vissuto in un ospedale a cielo aperto. Invece Carlo è morto «solamente por pensar».

Francesco Lo Secco


Foto in copertina Dylan Martinez – Reuters, 20-07-2001

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