Immigrazione, l’Unione Europea è ancora in ritardo

Dopo i recenti casi di Lampedusa e Ceuta riemerge il tema della mancanza di risposte adeguate da parte dell’Unione Europea al problema dell’immigrazione.


Tra le giornate dell’8 e 9 maggio scorsi, sulle coste di Lampedusa, le autorità hanno registrato lo sbarco di  2.128 migranti provenienti dalla Libia, mentre nella giornata di ieri le coste spagnole di Ceuta, al confine col Marocco, hanno accolto oltre  8mila migranti. Di questi, oltre 4mila sarebbero già stati respinti. Il premier socialista Pedro Sanchez ha inviato l’esercito per gestire la situazione, annullando il viaggio a Parigi – dove con Mario Draghi e altri leader avrebbe dovuto partecipare al vertice organizzato da Emmanuel Macron sul finanziamento delle economie africane. Si è invece precipitato a Ceuta, territorio spagnolo sulla punta nord-est del Marocco, da sempre spina nel fianco di Madrid per l’immigrazione.

Anche se è difficile immaginarlo, la situazione adesso si è addirittura deteriorata. Le tensioni con Rabat crescono e la decisione di Sanchez di schierare i militari non ha di certo placato gli animi. I numeri raggiunti in così poche ore però hanno allarmato i palazzi di Bruxelles e portato l’Italia a sperare che il tema immigrazione entri finalmente nell’agenda di un qualche vertice europeo, visto che gli sbarchi massicci di dieci giorni fa a Lampedusa non hanno sortito reazioni rilevanti da parte delle istituzioni comunitarie. Tuttavia, neanche oggi il dossier diventa prioritario in Europa e svanisce la speranza del premier Draghi di portare istanze di sorta al Consiglio europeo della prossima settimana. 

Attualmente le procedure di accoglienza e gestione d’asilo sono disciplinate dal Regolamento Dublino III e dalla Direttiva 2013/33. Svariati sono stati negli anni i tentativi di modifica, su iniziativa di Parlamento e Commissione, ma questi hanno sempre incontrato l’opposizione del Consiglio dell’UE, l’organo che riunisce i governi degli Stati membri. 

La Convenzione è ritenuta datata e inefficiente oltre che fondamentalmente ingiusta verso i Paesi di frontiera, poiché obbliga il primo Paese d’ingresso dell’Unione a identificare i migranti e trattenerli per tutto il tempo (due anni in media) in cui la richiesta di protezione internazionale venga vagliata. 

Oltre agli oneri economici che questo comporta, le pratiche legali e la gestione dell’accoglienza sono un fardello che nessun Paese, da solo, può sostenere. Per questo, nel corso degli anni, si è proposto di sostituire al criterio del “primo ingresso” un meccanismo di equa ripartizione dei richiedenti asilo fra i 27 Stati dell’Unione. È qui che gli interessi contrapposti dei singoli Stati e gli egoismi nazionali – tra cui soprattutto Austria, Polonia e Ungheria – hanno rischiato di provocare una frattura.

Il nuovo patto su asilo e migrazione

Lo scorso 23 novembre la Commissione europea ha presentato a Bruxelles il nuovo patto su asilo e migrazione. I punti centrali della proposta includono il rafforzamento dei controlli alle frontiere, il miglioramento dei programmi di rimpatrio, gli accordi con i Paesi di partenza e di transito e un “meccanismo di rimpatri sponsorizzati” che sostituisce il criterio delle ripartizioni obbligatorie, la cui approvazione da parte di tutti gli Stati membri è ormai considerata utopica. 

Il nuovo patto sembra ricalcare la stessa logica securitaria già perseguita con forza dagli Stati membri, lasciando irrisolti i nodi sui temi della solidarietà e dell’accoglienza, per concentrarsi solo sui punti in cui sembra più probabile trovare il consenso unanime degli Stati: il rafforzamento dei controlli e la limitazione degli ingressi.

Questioni aperte in materia di rifugiati e migranti climatici

Il nuovo patto presentato dalla Commissione non specifica nulla in più rispetto alla normativa preesistente in merito a rifugiati e migranti climatici, tema di estrema attualità se si considera che secondo l’International Displacement Monitoring Centre (IDMC) già nel 2017 ci sono state più di 18 milioni di persone obbligate a spostarsi per cause climatiche, più di quante non si siano spostate per fuggire dalle guerre.

Una definizione di rifugiati climatici chiara e condivisa a livello internazionale, tuttavia, non è mai stata raggiunta. I rifugiati climatici non sono una figura compresa nella Convenzione di Ginevra, che, invece, sottolinea esclusivamente l’elemento della persecuzione. Eppure, è dal 1985 che si parla di rifugiati ambientali: la prima traccia si rinviene, infatti, in un documento del Programma ambientale delle Nazioni Unite. 

Il riconoscimento di singoli rifugiati climatici da parti di corti nazionali è già iniziato e probabilmente continuerà.  In Italia, per esempio, nel 2017 il Tribunale dell’Aquila ha emanato una sentenza che riconosceva la protezione umanitaria a un richiedente proveniente dal Bangladesh, menzionando le inondazioni abbattutesi sul Paese di provenienza come causa della fuga nonché giustificazione sufficiente al riconoscimento del diritto d’asilo. Una sentenza precedente del Tribunale di Bologna, dello stesso segno, risale al 2016.

Secondo l’IDMC quella dei disastri naturali in generale è la causa numero uno di sfollamento. Malgrado i dati scientifici sul punto siano chiari, a ciò non corrisponde una consapevolezza politica della necessità e dell’urgenza di intervenire con una risposta più adeguata. Emerge ancora, da parte degli Stati dell’Unione, un’ostinata applicazione di logiche securitarie che compromettono ancora una volta la possibilità di progredire verso soluzioni sovranazionali, spingendo invece la Commissione – soprattutto rispetto alla redistribuzione dei migranti – verso un compromesso al ribasso che rende ancora debole la proposta di modifica del Regolamento di Dublino III.

Riconoscere lo status dei rifugiati climatici e adottare un regime internazionale globale per la protezione dei migranti climatici e la regolazione dei loro flussi sarà un passo necessario, ma non potrà essere un atto isolato: si dovrà, infatti, accompagnare a una revisione profonda della grammatica della sovranità.  Come già hanno proposto più appelli accorati di ricercatori e operatori del settore l’UE deve impegnarsi per raggiungere quale obiettivo generale lo sviluppo di una politica migratoria che tuteli la dignità degli immigrati e che tenga debitamente in considerazione la regolamentazione dei flussi dei migranti climatici, abbandonando le logiche securitarie ancora perseguite dagli Stati membri. 

A tal fine, un programma operativo efficace dovrebbe passare per: 1) l’istituzione di un sistema automatico e permanente di ricollocamento, che valorizzi i legami dei richiedenti asilo e rafforzi gli obblighi di solidarietà interna; 2) la creazione di vie legali d’accesso; 3) l’istituzione di visti umani per i rifugiati; 4) il lavoro sinergico con le reti diplomatiche, che favorisca la distribuzione della forza lavoro all’interno degli Stati membri ed i ricongiungimenti familiari. Come ha affermato la commissaria europea agli Affari Interni Ylva Johansson: «L’Ue deve dare solidarietà».