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Hikikomori: quando la solitudine diventa patologia

Un fenomeno nato in Giappone, ormai da decenni diffuso anche in Italia, spaventa la società moderna: parliamo degli hikikomori.


L’ultimo anno appena trascorso può annoverarsi senza mezzi termini tra i più difficili affrontati non solo dall’Italia, ma dal mondo. È indubbio che la pandemia da Covid-19 abbia messo in ginocchio nazioni intere, a livello economico, ma anche e soprattutto a livello sociale, e che abbia fatto venire fuori con prepotenza delle problematiche già presenti, ma spesso sopite o sottovalutate.

In questi mesi si è dovuto fare i conti con una condizione di solitudine strutturale sempre più diffusa, accentuata da quarantene forzate, lockdown, divieti e restrizioni che ci hanno costretto a guardarci allo specchio, faccia a faccia con noi stessi. E spesso, è accaduto che ciò che abbiamo visto non ci sia piaciuto, generando in noi paure, ansie, senso di impotenza, amplificati dalla situazione contingente; non è un caso che proprio negli ultimi mesi siano aumentate a dismisura tutte quelle problematiche psicologiche legate appunto a stress, panico, ansia, paura.

hikikomori

Se è vero che la solitudine non è mai stata una condizione nuova al genere umano, spesso anzi elogiata da scrittori e poeti come qualcosa di indispensabile per conoscere se stessi e il mondo circostante, vi è però un fenomeno estremamente preoccupante che ha preso piede ormai da decenni in Giappone, e che sta avendo ripercussioni non indifferenti sulla società: stiamo parlando degli hikikomori.

Chi sono gli hikikomori?

Hikikomori” è un termine che letteralmente si traduce con “stare in disparte” e viene utilizzato per riferirsi a tutte quelle persone, prevalentemente giovani tra i 14 e i 30 anni, che non vanno a scuola, non lavorano, non hanno interazioni sociali, spesso nemmeno coi membri della propria famiglia. 

In Giappone si calcola che vi sia almeno un milione di casi del genere tra la popolazione, anche negli adulti: questo perché, spesso, la condizione che si verifica in adolescenza tende a cronicizzarsi e a perdurare per la vita. 

Questo fenomeno non è figlio unico del Sol Levante, ma è più vicino a noi di quanto pensiamo: l’hikikomori, infatti, si sta pericolosamente diffondendo anche in Italia, anzi, in tutti i Paesi sviluppati del mondo, in quanto disagio adattivo sociale, che la situazione causata dalla pandemia non ha contribuito a migliorare.

Ma cos’è l’hikikomori? Hikikomori si sviluppa da una sensazione di paura e di inadeguatezza: inizialmente è una sorta di pulsione all’isolamento sociale, magari giustificata da alcune circostanze ambientali, scolastiche, o familiari, che portano un soggetto a isolarsi dal mondo esterno.

Non necessariamente questa pulsione deriva da brutti voti, anzi spesso gli hikikomori sono ragazzi molto intelligenti dotati di una (iper)sensibilità: è proprio quest’ultima che li porta a sviluppare una visione molto negativa della società, causando una sofferenza dovuta alle pressioni di realizzazione sociale, dalle quali cercano in tutti i modi di fuggire.

E come lo fanno? Annullando ogni possibile confronto col mondo esterno e aumentando il rifiuto di tutto ciò che li circonda.

Marco Crepaldi, presidente e fondatore di Hikikomori Italia, ha individuato tre stadi: in una prima fase, il ragazzo o la ragazza avverte lo stimolo a isolarsi, ma cerca di contrastarlo, mantenendo comunque una vita “normale”, fatta di attività sociali, compiute comunque con malessere; nella seconda fase, il ragazzo o la ragazza razionalizza la propria pulsione a isolarsi, attribuendole le più svariate cause, e iniziando a rifiutare sistematicamente e consciamente ogni occasione che preveda interazioni con altri individui, che richiedano una qualche forma di socialità, iniziando a preferire il mondo virtuale.

Il terzo e ultimo stadio vede l’abbandono totale del soggetto che finisce per arrendersi completamente alla pulsione dell’isolamento sociale e si allontana anche dai propri genitori, arrivando a non uscire dalla propria stanza anche per mesi, se non addirittura per anni.

L’unica finestra sul mondo, a questo punto, diventa la rete; sebbene si possa pensare che la dipendenza da internet sia una causa dell’hikikomori, sarebbe più corretto considerarla una conseguenza: il ragazzo non si isola per colpa di internet, o perché utilizza i social, o perché vede nella rete dei modelli di perfezione irraggiungibili da cui si sente schiacciato, piuttosto è il mondo virtuale che lo fa sentire protetto, perché da dietro uno schermo non si può essere giudicati, e si può osservare senza essere visti.

I numeri sono altissimi e fanno paura: in Italia si stima che ci siano circa 100mila hikikomori, anche se non esistono dati ufficiali. Oltre a essere un problema di tipo sociale non indifferente, il fenomeno degli hikikomori ha anche delle ripercussioni importanti a livello economico: non è questa la sede per approfondire tale aspetto, ma basti pensare al fatto che si sta parlando di una fetta importante di soggetti potenzialmente produttivi che non studiano, non lavorano, non hanno prospettive, non producono (d’obbligo il parallelismo con i cosiddetti Neet, ovvero Neither in Employment or in Education or Training). E le conseguenze di ciò sono gravissime.

Ciò che è certo è che non si devono sottovalutare quei segnali che possono essere confusi semplicemente con “periodi no”, o con “comportamenti adolescenziali dovuti all’età”: dare il giusto peso ai campanelli d’allarme che si prospettano può essere l’inizio per evitare la propagazione del fenomeno, e soprattutto la conseguente cronicizzazione dello stesso e maggiore difficoltà a superarlo.