Golpe in Myanmar: la transizione democratica che tramonta

Il recente golpe in Myanmar rimette al centro frizioni politiche e sociali mai risolte nel paese del sud-est asiatico.


Il primo febbraio un colpo di Stato ha avuto luogo nella Repubblica dell’Unione del Myanmar, precedentemente nota come Burma, paese del sud-est asiatico confinante con India e Bangladesh a nord-ovest e con la Cina a nord-est. La ragione dietro la commissione del golpe è da ricondurre a presunte irregolarità elettorali, verificatesi durante le elezioni dello scorso novembre. Questo, a quanto pare, il pretesto che ha mosso il golpe in Myanmar, organizzato e guidato dall’esercito birmano, il Tadmadaw, con a capo il generale Min Aung Hlaing, mentre l’ex generale Myint Swe è stato nominato presidente ad interim.

Il golpe militare in Myanmar non è un evento eccezionale, per quanto sia indiscutibile la gravità dell’evento. L’instabilità politica e gli attacchi al governo attraverso i golpe militari sono eventi frequenti nel Paese del sud-est asiatico. Il corpo militare birmano ha, di fatto, detenuto da sempre un ingente potere politico che ha influenzato considerevolmente le dinamiche interne del Paese. Già nel 1962 la forte militarizzazione del Paese, sponsorizzata dal Tadmadaw, ha condotto al primo colpo di Stato che aveva instaurato una dittatura militare capeggiata dal comandante Ne Win, che ha ricoperto il ruolo di dittatore durante il periodo socialista, verificatosi a Burma dal 1962 al 1988.

La storia politica contemporanea del Myanmar, tuttavia, è strettamente connessa a un’altra figura di spicco internazionale, quella di Aung San Suu Kyi, figlia del Generale Aung San che già prima di lei aveva combattuto per i diritti nazionali, per una maggiore inclusività e per l’indipendenza del Paese. Aung San Suu Kyi, nota con l’appellativo di ‘‘The Lady,’’ durante la dittatura militare, fu personalmente coinvolta nella battaglia per il riconoscimento dei diritti in Myanmar e, per tal ragione, venne arrestata dall’esercito birmano poiché riconosciuta come possibile minaccia al governo militare.

La fine della detenzione politica di Suu Kyi ha contribuito alla crescita politica del partito National League for Democracy (NLD), istituito nel 1988, che apriva le speranze per una possibile forza politica di opposizione, schierata contro il regime militare. Aung San Suu Kyi, quindi, divenne presto leader del partito, riscuotendo anche un discreto successo. Le tensioni politiche e di potere fra le due fazioni, tuttavia, hanno determinato un equilibrio precario interno al Paese, culminato con diverse rivolte dove la NLD e la stessa Aung San Suu Kyi si sono sempre schierati a favore di una resistenza di massa non violenta. Questa campagna volta a riconoscere i diritti civili e politici, che ha coinvolto migliaia di civili, è riuscita anche ad avere una considerevole risonanza mediatica internazionale.

I contrasti interni sono stati cruciali elementi che hanno contribuito alla predisposizione di elezioni politiche, prima nel 1990 quando furono del tutto fittizie e conclusesi con la vittoria della National League for Democracy di Aung San Suu Kyi, che di fatto non governò a causa di ostruzionismo da parte dell’esercito birmano, e successivamente con quelle tenutesi nel 2010 che vennero sabotate per escludere a priori la  partecipazione di Aung San Suu Kyi. A causa di ulteriori scandali relativi a queste elezioni e, nello specifico, connesse all’esistenza di votazioni fraudolente, la giunta militare fu dissolta nel 2011, con la conseguente preparazione di nuove elezioni che vennero tenute nel 2012.

Le elezioni politiche del 2012, vinte dall’ex generale Thein Sein, segnarono un primo grande passo verso la transizione democratica del Paese e si assistette a una graduale apertura verso il riconoscimento dei diritti civili e politici. La transizione, quale processo di cambiamento da un regime a un altro, necessita di tempo e di strutture forti in grado di sostenere un sostanziale mutamento in tal senso. L’instaurazione di una labile democrazia era ciò che stava avvenendo, poiché, lo spettro dell’esercito birmano continuava a esercitare un certo controllo. 

L’anno del cambiamento effettivo arrivò nel 2015, con nuove elezioni e la tanta attesa vittoria di Aung San Suu Kyi, che divenne leader indiscusso del Paese. Le riforme adottate dalla Lady furono molteplici: dalle riforme agricole ai miglioramenti delle infrastrutture e, ancora, l’impegno nella cessazione dei conflitti armati interni e la parziale integrazione di tutte le minoranze etniche scarsamente rappresentate nel Paese, senza contare i tentativi di ripresa economica anche a livello internazionale.

Sebbene Aung San Suu Kyi abbia rappresentato, negli ultimi anni, una figura controversa sia sulla scena nazionale quanto in quella internazionale, a causa della cattiva gestione della complessa questione della minoranza etnica Rohingya, largamente perseguitata in Myanmar. Il leader della NLD, certamente, rappresenta un simbolo importante all’interno del Paese e per la costruzione democratica dello stesso. Il recente colpo di Stato e il conseguente arresto di Aung San Suu Kyi, di cui non si hanno ancora ufficiali notizie riguardo la sua attuale collocazione, è interpretabile come un ripetersi della storia passata e dei trascorsi storici del Myanmar, dove l’esercito non vuole lasciare margine alla fioritura della democrazia.

Nei recenti giorni dopo il golpe la donna ha più volte esortato la popolazione civile a non arrendersi e a mobilitarsi per non lasciare impunite le azioni dell’esercito birmano. Diverse proteste hanno avuto luogo nella città e per le strade di Yangon e Naypyidaw, dove  molti attivisti pro democrazia e a favore del riconoscimento dei diritti umani si sono attivati, insieme alla popolazione civile, per dare risonanza alla causa, attraverso manifestazioni pacifiche e rumorose. Molti, infatti, hanno manifestato suonando i clacson e producendo altri tipi di rumori che,  secondo quanto riportato da un manifestante, intervistato da Associated Press (APnews), “suonare un tamburo, nella cultura birmana, è come cacciare i diavoli”.

Nella speranza, dunque, di ristabilire l’ordine e di avere giustizia contro le impunità  dell’esercito birmano, le manifestazioni pacifiche non sono ancora cessate. In merito a ciò che sarà il destino del Paese bisognerà ancora attendere: quel che è certo è che il Myanmar rimane un Paese dalle infinite possibilità ma da sempre frenato dall’ingombrante contrappeso politico esercitato dal corpo militare che rimane una presenza costante da cui è difficile scrollarsi.


Immagine in copertina di ISPI

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