Stati Uniti, la Camera vota l’impeachment di Donald Trump
Scartata l’ipotesi della rimozione in base al 25esimo emendamento, la Camera procede alla votazione del secondo impeachment di Donald Trump.
È passata una settimana dall’assalto al Congresso degli Stati Uniti. Nei giorni immediatamente successivi a quello che è stato un episodio inedito nella storia del Paese (l’ultimo assalto al Congresso risale alla guerra anglo-americana del 1812, in circostanze ben diverse), il dibattito oltreoceano si è concentrato sulle misure da prendere nei confronti degli insurrezionalisti e, soprattutto, di Donald Trump. Fino a ieri, le ipotesi discusse dal Congresso erano due: l’applicazione del 25esimo emendamento e l’impeachment di Donald Trump, il secondo nella storia della sua presidenza.
Sulla prima ipotesi, discussa dalla Camera a partire da ieri, lo scenario era pressoché scontato: l’adozione del 25esimo emendamento richiede infatti il consenso del Vice Presidente e, sin dall’inizio del dibattito seguito ai fatti di Capitol Hill, il Vice Presidente non si era mostrato favorevole a questa soluzione. La decisione di Pence era dunque ampiamente prevista: «Non credo che una tale linea di condotta sia nel migliore interesse della nostra nazione o coerente con la nostra Costituzione», queste le sue parole nella lettera inviata alla Camera durante la votazione.
A quel punto, come precedentemente annunciato dalla speaker della Camera Nancy Pelosi, è partita la discussione alla Camera sulla proposta di impeachment di Donald Trump. Al Presidente viene contestato “l’incitamento all’insurrezione”.
Occorre a questo punto fare una precisazione. Come spiegato in questo articolo da Francesco Costa, vicedirettore de Il Post ed esperto di Stati Uniti, l’impeachment non è un vero processo, ma una decisione politica, per cui non occorre che le azioni contestate corrispondano a reati precisi e specifici.
La procedura di impeachment, ad ogni modo, prevede un voto della Camera. In caso di approvazione, la palla passa al Senato, dove si tiene un “processo” al termine del quale, per la rimozione del Presidente, è necessario il voto della maggioranza di due terzi dei senatori.
Qualcuno potrebbe chiedersi perché avviare la procedura di impeachment a una settimana dall’insediamento del nuovo presidente Joe Biden, prevista appunto per il 20 gennaio. Ovviamente, l’intenzione dei democratici non è più (o forse non è mai stata) la rimozione immediata di Trump dalla carica di presidente. La priorità è piuttosto quella di dare un segnale per non lasciare impunito un gesto eclatante come quello del 6 gennaio. D’altronde, il passaggio al Senato prima del 20 gennaio sarebbe inutile, dal momento che fino ad allora la maggioranza è in mano ai repubblicani.
Le responsabilità di Donald Trump nell’assalto al Congresso sono infatti davanti agli occhi di tutti. Come dimostra questo video, il 6 gennaio Trump non solo ha chiesto a Mike Pence di bloccare la procedura di ratifica dell’elezione ma ha invitato i suoi sostenitori accorsi a Capitol Hill a invadere i palazzi del potere.
Successivamente, a margine di un generico richiamo all’ordine dopo l’assalto, ha dedicato parole tutt’altro che severe agli insurrezionalisti (“andate a casa, vi amiamo, siete molto speciali”), continuando a ripetere il mantra delle elezioni rubate, sebbene non vi sia una prova a dimostrazione di questa tesi.
Non è un caso se nei giorni immediatamente successivi Donald Trump sia stato bannato da Twitter, Facebook e da altri social network, né se a stretto giro sia arrivata la chiusura di Parler, il social network rifugio della destra più estrema di cui avevamo parlato già ad agosto.
Di fronte a tutto questo, l’atteggiamento di Trump non è cambiato. Sebbene abbia parlato di transizione ordinata del potere dalle sue mani a quelle di Joe Biden, Trump fino a ieri ha descritto le sue parole del 6 gennaio come “totalmente appropriate”, definendo l’impeachment “caccia alla streghe”: «questo impeachment sta causando una rabbia tremenda, è davvero una cosa terribile quella che stanno facendo».
Dunque, al di là del dibattito e delle perplessità suscitate dall’impeachment e dal ban dai social network – e in quest’ultimo caso le ragioni vanno ben al di là di un appello alla libertà d’espressione, difficile da giustificare in queste condizioni – resta un dato di fondo. I fatti del 6 gennaio rappresentano infatti un momento chiave della crisi culturale e politica che sta attraversando gli Stati Uniti ed è difficile dire se essi siano il momento culminante di un processo di radicalizzazione dell’elettorato repubblicano o l’inizio di qualcosa di ben più grosso.
In occasione della cerimonia di insediamento prevista per il 20 gennaio, sono previste infatti nuove proteste da parte delle frange più estreme a sostegno di Donald Trump. Non a caso è previsto un ulteriore rafforzamento delle misure di sicurezza: la Guardia Nazionale invierà 15mila truppe a Washington D.C., a dimostrazione del livello attuale di rischio. Dal suo canto, Joe Biden ha comunque affermato: «non ho paura di prestare giuramento all’aperto». Un chiaro segnale di fiducia nei confronti della forze di sicurezza e delle istituzioni.
I timori nei confronti dei manifestanti si intrecciano alle notizie sulla loro identità. Tra i protagonisti dell’assalto, alcuni dei quali sono già stati arrestati, troviamo esponenti dei vari gruppi che costituiscono la galassia dell’estrema destra americana: un mix di alt-right, suprematismo bianco e radicalismo, rispetto al quale la teoria del complotto di QAnon ha avuto un ruolo nel fare da collante.

Un altro dato da sottolineare è la diversità interna al movimento: se è vero che c’era un pezzo di America bianca e impoverita (non povera, impoverita) è innegabile la presenza di una schiera di ricchi pro-Trump.
E mentre le forze dell’ordine di Washington D.C. sono sotto i riflettori, dopo che due ufficiali sono stati sospesi e altri due sono sotto indagine, il dibattito sulla definizione più utile a inquadrare i fatti della settimana scorsa continua. C’è chi ha parlato di colpo di stato, chi di terrorismo interno, chi di rivolta. Un dibattito globale, dato il ruolo globale degli Stati Uniti nella politica internazionale, che ha toccato anche il ruolo strutturale delle disuguaglianze e che in Italia ha suscitato non poche reazioni.
Sebbene la scelta di questa o quell’etichetta al momento sia prematura, due punti sono chiari. Il primo è che ciò che tiene insieme i vari soggetti della proteste è la figura di Donald Trump: quello del 6 gennaio è stato un colpo di coda reazionario, un gesto disperato per la sopravvivenza da parte di una massa la cui unica preoccupazione è la permanenza al potere del capo politico che la costituisce politicamente, al di là delle procedure e delle regole della democrazia rappresentativa.
Il secondo punto è che, proprio per questa ragione, è difficile che Trump si ritiri dalla vita politica: buona parte dei voti andati al partito repubblicano sono voti dati a Trump. Se è probabile che alcuni deputati e senatori repubblicani (come sta già accadendo) si dissoceranno da lui, il trumpismo è destinato a restare una forza politica, vista anche l’assenza di leader al livello di Donald Trump all’interno del partito repubblicano.
Gli scenari dunque sono due: o il partito repubblicano si separa dalle frange più estreme (presenti all’esterno e all’interno) conservando però la narrazione trumpiana dell’elezione rubata, oppure Trump si fa un partito tutto suo, rubando voti ai repubblicani e rafforzando la polarizzazione politica iniziata proprio nel 2016.
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