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Covid-19 in Cina: il pericoloso mestiere del giornalista

Durante l’epidemia da Covid-19 in Cina, fare il giornalista costa caro. In un mondo in cui si dovrebbero combattere le fake news, c’è chi ancora storce il naso di fronte alla verità.


“Senza reporter indipendenti la guerra non sarebbe altro che un carinissimo spettacolo”, queste le parole di Reporters Sans Frontierès (Rsf) – organizzazione non governativa in difesa della libertà di informazione e di stampa – nella sua ultima campagna a favore della protezione dei giornalisti indipendenti nel mondo. Il valore del giornalismo indipendente viene spesso dimenticato, rimanendo oscurato dalle comunicazioni ufficiali che mirano alla manipolazione della realtà. Tra queste, naturalmente, anche le notizie sulla pandemia che stiamo tutt’oggi affrontando.

Secondo il rapporto diffuso lo scorso 15 dicembre da Rsf, la pandemia da Covid-19 non ha fatto che aggravare le condizioni di detenzione dei giornalisti in giro per il mondo. Inoltre, nonostante la diminuzione dei reportage, il numero dei giornalisti uccisi è rimasto stabile rispetto all’anno precedente: 50 nel 2020 e 53 nel 2019. 

Giornalisti in Cina: arresti e controllo delle notizie

Ad aggiudicarsi il deplorevole primato dell’arresto dei giornalisti è la Cina, seguita dal Medio Oriente. I dati del rapporto mostrano un’impennata tra i mesi di marzo e maggio, quando la diffusione del virus ha raggiunto il resto del mondo. In Asia, i giornalisti arrestati a causa di scomode affermazioni sul Covid-19 sarebbero ben 65 su 135.

Nel 2020, il governo cinese è stato quello che ha imprigionato più giornalisti (117 sui 387 detenuti in tutto il mondo). La maggior parte di questi arresti sarebbero avvenute nello Xinjiang e riguarda giornalisti di origine uigura.

La Cina, che nel World Press Freedom Index del 2020, è stata classificata quartultima (177 su 180 Paesi), avendo imposto un modello di contenimento sociale basato sul controllo delle notizie e delle informazioni e sulla sorveglianza online dei suoi cittadini. La censura, d’altronde, è una pratica molto diffusa all’interno della Repubblica Popolare Cinese, che da sempre mantiene sotto stretto controllo qualsiasi attività comunicativa potenzialmente pericolosa grazie non solo a tecnologie come il Golden Shield, ma anche ad auto regolazioni culturali intrinsecamente condivise a livello sociale.

Nelle scorse settimane il New York Times insieme a ProPublica hanno diffuso una lunga inchiesta sulla manipolazione che il governo cinese avrebbe condotto per avere il favore dell’opinione pubblica durante i mesi più gravi della pandemia di coronavirus nel Paese.

Per manipolare i media, il governo ha usato centinaia di migliaia di funzionari pubblici, spesso di basso livello, per diffondere messaggi positivi, indirizzare le discussioni online riguardanti il virus e segnalare i contenuti più pericolosi. Non possiamo sapere se una circolazione più libera delle informazioni nelle prime settimane avrebbe potuto modificare l’impatto globale della diffusione del virus, ma il dubbio non può che sorgere.

A fare le spese di questa manipolazione di massa non solo la verità, ma anche la giustizia. La blogger-giornalista Zhang Zhan, detenuta da maggio, è stata condannata a quattro anni di reclusione dal tribunale di Shanghai per aver diffuso “false informazioni” sui social media, riguardanti la risposta del governo all’epidemia di Covid-19 nella città di Wuhan, rilasciando anche interviste a media stranieri.

La Zhang ha realizzato dei video che mostravano ospedali affollati e residenti disperati, preoccupati per la loro situazione economica, in contrasto con le comunicazioni ufficiali diffuse dal governo. Nella sentenza si accusa la Zhang di aver «raccolto litigi e provocato problemi», con le sue attività di inchiesta sui fatti di Wuhan.

Come accennato, l’avvocatessa 37enne non è l’unica vittima della censura. Almeno altri dieci giornalisti sono stati arrestati in Cina per lo stesso motivo: anche Chen Qiushi, Fang Bin e Li Zehua, sono detenuti dalle autorità dall’inizio dell’anno per aver parlato degli eventi di Wuhan, così come la giornalista di cittadinanza australiana, Cheng Lei, arrestata il 14 agosto a Pechino e accusata di attività criminali che avrebbero messo a rischio la sicurezza nazionale cinese, per aver mosso critiche al governo. Da allora, si trova “sotto sorveglianza in una residenza designata”.

Hong Kong e la legge sulla sicurezza

Oltre che dalla Cina continentale, altre notizie sconfortanti arrivano da Hong Kong, dove si hanno i primi effetti delle legge sulla sicurezza. Qui Jimmy Lai, attivista democratico, rischia l’ergastolo, mentre Giggs, giornalista radio, è attualmente in stato di detenzione. Il 6 gennaio altri 53 attivisti ed esponenti dell’opposizione sono stati arrestati. 

La legge, approvata lo scorso 1 luglio 2020, vieta ai singoli individui, così come alle organizzazioni e alle istituzioni di Hong Kong, di partecipare a qualsiasi attività ritenuta lesiva della sicurezza nazionale, e punisce i reati di sovversione, separatismo, terrorismo e collusione con poteri stranieri. 

In un’epoca in cui l’unico nemico dovrebbe essere la cattiva informazione, il mestiere del giornalista indipendente si dimostra ancora estremamente pericoloso in diversi Paesi del mondo. L’esempio cinese è il più lampante, la sua manipolazione mediatica ha superato i confini nazionali e convinto l’opinione pubblica dell’efficacia e prontezza della risposta al pericolo. 

A questo punto, la domanda sorge spontanea: quanto c’è di vero in quello che ci è concesso sapere? 


Foto di copertina di Roger H. Goun

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Federica Agrò

Ho due vite parallele e soddisfacenti: in una mi occupo di strategie di marketing e social media management, nell’altra scrivo di diritti umani, attualità, cultura ed ecologia.

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