Contraccezione obbligatoria e aborti forzati: la Cina vieta il futuro agli Uiguri

 

Una nuova macchia sulla già scarsa reputazione cinese in campo di diritti umani. Le donne Uiguri sono costrette a non avere figli: così si cancella il futuro di una popolazione.


La persecuzione della Cina verso gli Uiguri non rallenta nonostante i numerosi richiami da parte della comunità internazionale. L’ultima scioccante notizia di violazioni riguarda le donne e la loro libertà di diventare madri.

Pechino continua a sostenere l’inesistenza dei campi di detenzione della popolazione nello Xinjiang, eppure notizie inquietanti e preoccupanti continuano a susseguirsi. Prima il sequestro da parte delle autorità statunitensi di un camion carico di extension per capelli che si pensa arrivino dai “campi di formazione” in cui molti Uiguri sono costretti a vivere, poi uno studio di Adrian Zenz, uno dei maggiori esperti dell’area dello Xinjiang, condotto su documenti ufficiali cinesi e interviste a donne uigure, punta i riflettori su nuove violazioni dei diritti umani.

Questo studio alza il velo su un piano di limitazione delle nascite di questa minoranza musulmana dell’estremo ovest della Cina. In alcune aree del Paese, infatti, dove la presenza uigura è importante, sono stati calcolati centinaia di installazioni di dispositivi contraccettivi e interventi di aborto. Secondo le testimonianze, anche le donne che non avevano ancora superato il limite massimo di due figli imposto dalla legge cinese, sono state obbligate con minacce e pressioni psicologiche a sottoporsi a queste procedure.

Uno degli elementi di maggior interesse di questo studio è la velocità con la quale una delle aree con il più alto tasso di natalità di tutta la Cina, abbia visto crollare le nascite in maniera vertiginosa negli ultimi anni. In un’intervista a StartNews Global, Zenz afferma che l’azione intrapresa dalla Cina nei confronti della popolazione degli Uiguri ricade perfettamente nella definizione di “genocidio culturale”, vale a dire la distruzione deliberata dell’eredità culturale di una popolazione per ragioni religiose e razziali.

Pechino, naturalmente, rigetta le accuse, ma la sua posizione a livello internazionale si fa sempre più complessa. Lo scorso giugno, infatti, Trump ha firmato una nuova presa di posizione contro la Cina, che destabilizza ancora di più i rapporti tra i due Paesi. Lo Uyghur Human Rights Policy Act, in difesa della minoranza musulmana, autorizza le sanzioni nei confronti dei funzionari cinesi che siano accusati di retate di massa degli Uiguri.

La preoccupazione per le violazioni dei diritti umani, non è stata di certo un elemento centrale della presidenza Trump, e per quanto si dubiti della sincerità di intenti che ha portato il Presidente a firmare la legge, le conseguenze di questo atto non tarderanno ad arrivare.

La risposta della Cina non si è fatta attendere: «Invitiamo ancora una volta gli Stati Uniti a correggere immediatamente i propri errori e a non usare la legge relativa allo Xinjiang per danneggiare gli interessi della Cina e per interferire nelle sue questioni interne, altrimenti la Cina reagirà risolutamente e tutte le conseguenze saranno a carico degli Stati Uniti».

La Cina continuerà a negare, ma la comunità internazionale non può restare cieca di fronte ad accuse di questo calibro. Il genocidio culturale rappresenta una delle più gravi violazioni dei diritti umani. Non c’è bisogno di vedere maceti come in Ruanda o di riscoprire le camere a gas dell’era nazista.

Impedire ad una minoranza di riprodursi, di praticare la propria religione, le usanze e la cultura può avere un unico scopo: l’estinzione. Si tratta di una violenza a lungo termine, ma altrettanto macabra ed efferata, con la differenza che questa volta non potremo dire “noi non lo sapevamo”.

Foto in copertina Dmitry P (Flickr)


 
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