Arancina o arancino che sia, è la Sicilia in tavola

Anche l’arancina (o l’arancino) fa parte di una grande storia: una traduzione che unì due mondi e li portò fino a noi. Cos’è davvero questa classica pietanza nata in Sicilia?


Da circa un secolo va avanti la diatriba sull’origine etimologica e sulla declinazione della palla di riso più famosa d’Italia: arancino o arancina? Infinite catene di commenti si sono sprecate dietro la durissima spaccatura che infuoca la Sicilia, divisa fra i sostenitori dell’arancina tonda occidentale e l’arancino a punta orientale. Oggetto di venerazione e di consumo spropositato durante la festività dedicata a Santa Lucia, fa scontrare ancora oggi frittologi e pseudo-filologi. Hanno fatto bene i cugini partenopei a chiamare le loro creazioni simili a quella siciliana con un più realistico e concreto “pall ‘e riso”.

Da una parte all’altra della Sicilia si sono scomodati antichi documenti storici, dizionari perduti e grandi autori della letteratura come Camilleri fino ad arrivare alla chiusura dello scontro – come sempre – con la dichiarazione dell’Accademia della Crusca e con la sua pietra tombale sulle pretese sicule: si dice in entrambe le maniere. E questa era la parte noiosa della storia sull’arancina (che chiameremo così in questo articolo) e che ci ha coinvolto a tavola, sui social e in televisione. Le origini presunte e le ricostruzioni storiche di questa pietanza siciliana, fino all’odierno “arancina day” del 13 dicembre, svelano invece un racconto avvincente e straordinario che coinvolge la formazione della cultura culinaria isolana e, quindi, in qualche modo, anche il presente siciliano.

L’arancina pare risalga addirittura al Medioevo e che abbia dirette influenze della cucina araba, come più o meno la totalità del cibo siciliano. Si è cercato di dare un senso alla nascita dell’arancina tramite l’analisi degli ingredienti che la costituiscono: lo zafferano ha suggerito un’origine – o quantomeno una diffusione – alto-medioevale corrispondente alla dominazione saracena, epoca in cui in Sicilia era solito consumare riso e zafferano condito con erbe e carne.

Lo stesso nome «arancina» deriverebbe dall’abitudine araba di dare al cibo dei nomi che richiamassero quello di frutti simili per la propria forma. È il caso dell’arancina con l’arancia, appunto, ed è Giambonino da Cremona a raccontarlo facendo, di fatto, la storia. 

I momenti più importanti dell’umanità sono passati da una traduzione (talvolta persino errata): basti pensare alla Stele di Rosetta scoperta da Pierre-François Bouchard, o alla Bibbia di San Girolamo; e Giambonino da Cremona non è da meno. Lo studioso e traduttore riporta dall’arabo al latino alcune conoscenze circa la gastronomia araba del XIII secolo in quel del Sacro Romano Impero. Il testo più importante, redatto originariamente da Ibn Jazla tra l’XI e XII secolo, fu tradotto in latino col titolo Liber deferailis et condimenti, in cui si elencano le abitudini della cucina araba e la composizione di diverse pietanze che oggi siamo in grado di ricostruire.

Sappiamo oggi, grazie a quelle traduzioni, che durante i fasti del regno di Federico II di Svevia alcuni ingredienti si erano prepotentemente imposti sulla dieta mediterranea: melanzane, zafferano e pistacchi, per esempio, tutti elementi che ancora oggi fanno parte dei piatti più cucinati in Sicilia. È durante quel periodo storico, documentato come particolarmente ricco di contaminazioni culturali, che si sono fusi Oriente, Medio Oriente e Occidente in un pugno di riso allo zafferano a forma di arancia e con un ripieno di carne.

Arancina al ragù sulla tavola di Federico II? Non proprio. Fermo restando che si tratta di una ricetta ricca di variazioni e, allo stesso tempo, di una formula di derivazione popolare, possiamo azzardare solo delle ipotesi. Una cosa è certa: nessuna salsa di pomodoro era prevista dato che durante il periodo Federiciano l’ortaggio rosso non era ancora stato importato dalle Americhe. La prima “pomodorizzazione” siciliana risale solamente alla seconda metà dell’Ottocento, momento dal quale la cucina siciliana diventa ancora più rossa. Possiamo immaginarci dunque una palla di riso piuttosto essenziale con un cuore calorico alla carne.

La caratteristica panatura dell’arancina si ipotizza ebbe una prima applicazione siciliana alla corte di Federico II come nelle cucine degli stessi inventori arabi: questo passaggio rendeva la palla di riso compatta e trasportabile in viaggi e battute di caccia. La croccantezza esterna avrebbe reso migliore sia la conservazione che il trasporto dell’arancina.

Come si legge in un’intervista allo storico Gaetano Basile, direttore della rivista Il Pitrè ed esperto di tradizioni popolari e di cucina siciliana, questo antico piatto «normalmente veniva servito al centro della tavola in un unico vassoio e, come era consuetudine anche dei nostri contadini, ognuno per mangiarne allungava le mani. Un giorno per renderlo da asporto gli arabi ne fecero una palla simile ad un’arancia, che successivamente impanata e fritta acquistò consistenza, tanto da resistere al trasporto».

E perché l’arancina possiede perfino una “giornata”? Premettendo che si tratta di una giornata del tutto commerciale e per niente ufficiale, il 13 dicembre per la Sicilia corrisponde alla festività di Santa Lucia, giorno in cui tradizionalmente si consumano arancine e cuccìa, una pietanza a base di grano bollito e ricotta. La tradizione vuole che non si possano mangiare pasta, pane e altri farinacei lavorati – anche se la panatura dell’arancina è inequivocabilmente un farinaceo – ed è una giornata molto sentita in tutta la Regione. 

La tradizione culinaria siciliana ha portato, nel tempo, all’inclusione “indebita” dell’arancina fra i piatti d’obbligo della giornata di Santa Lucia trasformata in certi casi nell’arancina day. L’astensione dal consumo di pane e pasta nel ricordo della miracolosa fine della carestia è solo un lontano ricordo. Siracusa però non ha dimenticato quel brutto momento superato dopo tanta sofferenza e festeggia rumorosamente ogni 13 dicembre la sua patrona dalla corona di candele.

L’arancina anche qui è riuscita a inserirsi tra due mondi: se le sue origini portano il segno della sovrapposizione saracena e normanna, la sua affermazione nel giorno di Santa Lucia unisce sacro e profano; dove finiscono la tradizione e il culto, inizia la mondanità di un popolo costantemente dissacrante ma pieno di santi.


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