Mapplethorpe, Nan Goldin e Félix Gonzàlez-Torres: gli artisti contro la “fobia”

 

Gli anni Duemila sarebbero stati, nella mente del più ottimista, il momento della raccolta di quei frutti, i cui semi sono stati trapiantati nel corso del tempo. Lotte contro il razzismo, a favore dell’emancipazione femminile, contro l’omofobia dopo i moti di Stonewall: ciò che per i più, a oggi, è la normalità, prima era il “nemico da annientare”, il “diverso” da fermare nella sua ricerca di un posticino nel mondo lontano o, ancora meglio, libero da pregiudizi di ogni sorta.

Ogni 17 Maggio, dal 2004, ricorre la “Giornata contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”. Conosciamo bene queste parole, ancora tristemente radicate nella nostra quotidianità: il suffisso fobia, difatti, riconduce a una immotivata e angosciosa paura ma anche a un’invincibile avversione. Ma paura di chi? Avversione, per chi? Semplicemente per un altro essere umano, questa è la risposta. Un essere umano considerato diverso, e dunque sbagliato, solo perché con coraggio – a questo punto – ha avuto la capacità di vivere al di fuori dagli schemi dettati da quella parte di società più “conservatrice”, forse vittima di retaggi passati distorti o forse semplicemente o volutamente ignorante una realtà che considera sbagliata,  inconsapevole del fatto che di realtà ve ne è solo una.

La domanda che ci si pone, dunque, è una: di quelle lotte cosa abbiamo raccolto se ancora, a oggi, esistono queste giornate atte alla sensibilizzazione? Perché vedere nemici dove vi è amore? Domanda retorica, forse, alla luce di quanto detto.

Sicuramente a oggi la situazione è nettamente cambiata rispetto al passato. Molti sono riusciti a ottenere quel “posticino” ma non senza ostacoli, problemi o vessazioni – in molti paesi del mondo l’omosessualità è illegale e punibile con la detenzione, se non addirittura con la morte. Basti pensare che sino a trent’anni fa l’omosessualità era considerata come malattia mentale dall’OMS; basti pensare inoltre a come l’omosessuale fosse automaticamente identificato nella malattia del secolo, l’AIDS, additato come capro espiatorio dalle vittime della disinformazione. Si ricordi la sofferenza di dichiararsi gay e la paura dei pregiudizi che ne derivava, la paura di perdere la casa, il lavoro e a volte anche la vita: difatti, non erano rari i casi di omicidi.

Sono passati alla storia i moti di Stonewall, sul finire degli anni Sessanta, o la Gay Activists Alliance, sino ad arrivare al Movimento di Liberazione Gay Moderno, su scala mondiale, meglio conosciuto come Movimento LGBT, attraverso i quali gli omosessuali iniziarono e continuano a oggi a far sentire la propria voce: loro ci sono, esistono, vivono e meritano di farlo alla luce del sole, come tutti.

L’arte, in quel momento storico che dura sino a oggi, si unirà a questo grande coro che richiede la dignità di cui ogni essere umano non dovrebbe essere privato e lo fa attraverso i mezzi più potenti, ovvero le immagini, installazioni e performance dalle doti comunicative forti, immediate, globali ma soprattutto silenti. Un silenzio che sembra entrare in contrasto con la “chiassosa” voglia di esistere di questi cortei, ma che in realtà fa rumore e tanto. Difatti, l’arte e il suo silenzio potrebbero risultare più incisivi di ogni parola: sono importanti veicoli per agevolare l’informazione, per l’evoluzione della civiltà e della cultura. In poche parole sono in grado di costruire un vocabolario alternativo, capace di restituire nel complesso il fermento della società o della cultura a cui si riferiscono.

Dunque molti artisti hanno affidato all’arte la loro visione di questa società in fermento, a volte d’insieme, a volte personale, altre volte particolarmente intimistica trasponendo e narrando anacronisticamente la propria vita attraverso foto e installazioni, magari perché proprio anch’essi omosessuali.

Il fotografo Robert Mapplethorpe, per esempio, riesce a donarci attraverso le sue foto frammenti della cultura queer underground nella New York anni Ottanta-Novanta. Anche se omosessuale, tuttavia, l’artista non è stato un militante dei diritti civili: ha “semplicemente” voluto sconvolgere la società attraverso l’esplorazione di sé e dell’altro, testimoniando la rivoluzione sessuale in atto in quel momento. Ha apertamente provocato, giocando con il finto perbenismo dei più, scioccati e indignati dinanzi ai soggetti ritratti nudi – trovati per la maggior parte all’interno del locale gay Mineshaft di New York – espliciti nella loro sola presenza ma anche in manifesti atteggiamenti e pratiche sessuali, come quelle sadomasochiste o del bondage.

È evidente una tensione alla pornografia, volutamente ricercata (è il caso di Portfolio X, che fece discutere parecchio). Ma ciò che comunemente risulta volgare e sconveniente, poiché oggetto di tabù, diventa anche arte secondo un processo di sublimazione. Ciò che è scioccante, così, diventa elegante: il pene, frequente presenza nelle sue foto, assume il ruolo di feticcio da idolatrare, i nudi integrali diventano sculture viventi scavate dalla luce, come estratte da un invisibile blocco di marmo da un contemporaneo Michelangelo. In contrapposizione ai nudi, simili a statue greche, si pongono i primi piani di fiori delicatissimi che, a loro volta, non sono altro che i genitali delle piante: tutto rimanda a quell’elegante erotismo, seppur esplicito, che tuttavia non è stato subito capito e dunque considerato scandaloso, al limite della censura.

Alla perfezione stilistica delle simil statue classiche di Mapplethorpe, si contrappone la verità di Nan Goldin. Nessun gioco di luci, nessun set fotografico, nessun modello scelto e istruito per plastiche pose: nei lavori della fotografa statunitense solo frame di vita vera, solo quotidianità fatta di attimi prontamente colti. Volutamente sfocate, grezze ma pregne di parole: basta guardare una fotografia di Nan Goldin e sembrerà che il soggetto – quasi sempre colto di sorpresa –, attraverso uno sguardo o un gesto, possa o voglia raccontare parte di sé o del suo mondo. È questo, infatti, l’intento dell’artista: dare voce a chi non viene ascoltato, dar voce a quelle minoranze che vivono ai margini della società, mostrarne le complessità e le fragilità.

Artista dalla vita travagliata, il suo lavoro indaga le vite altrui, quelle della sua grande famiglia allargata e vi entra dentro, con fare quasi “vouyeristico”, ne immortala i momenti con fare diaristico. Sono proprio loro i soggetti dei suoi lavori: la sua tribù con transgender, drag queen, omosessuali, sieropositivi, altri ancora tossicodipendenti. Li racconta senza pretese, senza sovrastrutture, come nella serie fotografica Sirens. In fondo, cosa può importare se il soggetto non è messo ben a fuoco, se è distratto? Anzi è proprio questo il valore aggiunto alle sue foto, quel “carpe diem”, l’idea e la voglia di immortalare quel momento, quello sguardo, quel sorriso irripetibile. Le sue opere celebrano la conditio umana, qualunque essa sia, con le sue gioie, dolori, la vita e anche la morte. Celebra l’esistenza, perché anche se le minoranze venivano messe ai margini, rendendole così invisibili, continuavano a essere.

“Sirens” (Nan Goldin)

Una visione più intimistica dell’omosessualità viene data da Félix Gonzàlez-Torres. La poetica che connota tutte le sue opere-installazioni ruota intorno al grande concetto di amore a cui viene collegata il binomio vita-morte e infine solitudine. Amore per Ross Laycock, il suo compagno, che l’AIDS portò via troppo presto, tanto presto da aver sconvolto la vita e tutto il mondo di Félix, lasciandolo solo e con un dolore troppo difficile da sopportare.

L’artista ha voluto incanalare questo dolore nell’arte, utilizzando un linguaggio universale e comprensibile a tutti fatto di emozioni e sentimenti poiché è impossibile non provarne e dunque non immedesimarsi in qualcosa di così devastante. Decide di raccontare il calvario del suo compagno attraverso i famosi accumuli di caramelle (quasi sempre aventi il peso che aveva Ross al momento della morte, 80 kg), di fogli o altri vari oggetti, opere destinate a consumarsi, poiché il fruitore è invitato a raccoglierne quanti ne vorrà: ogni pezzo sottratto era un passo in più verso la morte. Un’evidente metafora dell’AIDS che a poco a poco ha bruciato la vita di Ross, inevitabilmente.

Non esiste conforto per questo suo dolore, non esiste tempo che possa lenirlo. Scorre lo stesso, con il suo naturale scandire delle ore ma non lo si sente addosso, non lo si vive. Si sopravvive. È questo ciò che Féliz Gonzàlez-Torres vuole suggerire con Perfect Lovers: i due orologi, metafora dei due amanti  e delle loro vite, fermati alla stessa ora, l’ora in cui Ross è morto. Ripartendo, andranno fuori sincrono: chi andrà avanti, chi rimarrà indietro, evidenziando così il grande divario creatosi tra loro, tra chi è rimasto in vita e chi se n’è andato.

“Perfect lovers” (Félix Gonzàlez-Torres)

Il tema del doppio è ricorrente in Gonzàlez-Torres. Rappresenta la coppia Féliz-Ross: così come con gli orologi, lo stesso nelle foto poste nei cartelloni pubblicitari di Manhattan rappresentanti il loro letto, sfatto. Lo stesso letto in cui si consumò la loro vita ma anche la loro morte, lo stesso letto che rappresenta un’assenza, presente in quelle lenzuola sfatte.

Esibizionismo, fragilità, amore, morte e malattia: costanti nella vita di tutti, omosessuali, eterosessuali, transessuali. Tutti soffriamo, tutti ci ammaliamo, tutti amiamo: tutti siamo esseri umani uguali. Ma sino a quando continueranno a esistere giornate di sensibilizzazione che sembrano ricordare di “non odiare l’altro”, significa che continueranno a esistere etichette e pregiudizi: uno stigma sociale che ci rende solo esseri, poiché di umano abbiamo ben poco.