Né divieti né pinkwashing: i palestinesi queer non si fermano

Di Maddalena Tomassini – New York, 1969. La prima volta fu rivolta. Non sono in molti, fuori dalla comunità LGBTQ+, a sapere che il Pride non è una parata esibizionista intesa a offendere la brava gente, ma un momento per celebrare e ricordare: ricordare la rivolta di Stonewall, ricordare i gay, lesbiche e trans che si ribellarono ai soprusi della polizia newyorkese, segnando una svolta nella lotta per i diritti civili degli LGBT. Ancora oggi, si scende in strada non per – o meglio, non solo – celebrare il cammino compiuto, ma perché la meta è ancora molto, molto, lontana. Ma come a New York 50 anni fa, ancora oggi le comunità queer non fermano la loro marcia.

E quella palestinese non è da meno. Nablus, 2019. Una trans adolescente palestinese viene accoltellata nella città araba di Tamra, nel nord di Israele. In un momento storico per la comunità, il 1 agosto, centinaia di palestinesi LGBT e alleati scendono in piazza ad Haifa per protestare contro le violenze subite a causa della loro identità di genere o dell’orientamento sessuale. Il 4 agosto, alQaws pubblicizza un evento di informazione e sensibilizzazione sui temi sessuali e di genere a Nablus, nei Territori Palestinesi.

I social media si infiammano e una piena di minacce invade le pagine degli organizzatori. Il 18 agosto il portavoce della polizia ANP, Louai Irzeqat, annuncia una messa al bando di tutte le iniziative di alQaws. Secondo la polizia, l’associazione è un “attore esterno”, “sospetto”, contrario ai “valori tradizionali palestinesi”. La risposta di alQaws non si fa attendere, e in un comunicato l’associazione rivendica la trasparenza del proprio lavoro e impegno, lanciando l’allarme: «Non abbiamo mai ricevuto tante minacce prima».

In un articolo pubblicato il 22 agosto su Middle East Eye, l’attivista LGBT Falastine Saleh critica l’ANP: «Non ha solo fallito nel proteggerci dalle minacce di morte e di violenza sessuale, non ha solo mancato di condannare queste minacce come illegali e vergognose, ma ben peggio, ha dato il via libera agli omofobi di attaccare membri della comunità LGBTQ+ violentemente, personalmente e individualmente».

Il mondo delle associazioni per i diritti umani e per i diritti omosessuali si scaglia contro l’ANP, in difesa e sostegno di alQaws. I sostenitori di Israele scattano, pronti e immancabili, a sottolineare le differenze abissali fra le due società: omofobia islamica contro la scintillante gay-friendly Tel Aviv.

Tel Aviv, 2019. No, Israele non ha vietato le attività queer. È innegabile che la comunità LGBT goda di più diritti delle controparti dei Paesi vicini. Il problema è che l’ha trasformata in una foglia di fico per nascondere le proprie violazioni dei diritti umani: senza nulla togliere agli sforzi della comunità LGBT israeliana, non bisogna ignorare che l’atteggiamento di Israele verso il mondo LGBT affondi le proprie radici anche nella campagna Brand Israel lanciata ufficialmente nel 2007 dal ministero degli esteri israeliano per lustrare l’immagine dello Stato agli occhi esterni.

E quale aspetto migliore che quello di un’oasi sicura per la popolazione LGBT, in contrapposizione con i vicini barbari musulmani, “chiaramente” omofobi? Con una mano di vernice rosa – o di pinkwashing, come definita dagli attivisti – lo Stato israeliano cerca di tinteggiare i muri dell’occupazione con una tonalità più gradevole alla vista.

«I diritti omosessuali sono essenzialmente diventati uno strumento per le pubbliche relazioni» sosteneva Aeyal Gross, professore di legge alla Tel Aviv University, citato da Sarah Schulman già nel 2011 sul New York Times. Anche se, specificava, «i politici conservatori e in particolare religiosi rimangono fermamente omofobi» – discorso ben attuale, se si pensa alla polemica, solo il mese scorso, scaturita dal sostegno alle “terapie di conversione” del ministro dell’istruzione Rafael “Rafi” Peretz.

Gli attivisti LGBT palestinesi non ci stanno. Sul proprio profilo Twitter l’associazione ha elencato cinque punti per chi vuole sostenerli. Uno di questi è ben chiaro: non bisogna separare colonialismo e patriarcato, “tutte forme connesse di oppressione”. Il successivo lo è ancora di più: «Tenetevi a largo dal pinkwashing».

La comunità queer palestinese non ha alcun desiderio di essere “salvata” da Israele. E non ci stanno a farsi azzittire dall’ANP. AlQaws continuerà i propri sforzi per costruire un dialogo necessario a far camminare e migliorare la loro società verso una maggiore equità.

«Il movimento queer continuerà a crescere» conclude Saleh nell’articolo, «e la comunità in Palestina o in qualsiasi altro posto non scomparirà; più saremo visibili, più subiremo contraccolpi. Fa parte del processo per creare una società giusta e dignitosa. Finché il lavoro per creare le fondamenta continuerà, queste conversazioni troveranno sempre più spazio nella sfera pubblica, e le persone si abitueranno a sentirne parlare, e alla fine a prenderne parte in maniera costruttiva. Dopodiché, avremo un dialogo interno onesto e avremo costruito un movimento per l’equità che nessuno sarà in grado di fermare».


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