referendum 12 giugno

Referendum sulla giustizia, la guida ai quesiti

Mancano pochi giorni al Referendum sulla giustizia, previsto in concomitanza con le elezioni amministrative. Cosa prevedono i quesiti?


Il prossimo 12 Giugno, dalle 07:00 alle 23:00, il corpo elettorale italiano sarà chiamato a esprimersi sui cinque quesiti – promossi dalla Lega e dal Partito Radicale – in cui si articola il Referendum abrogativo (diverso da quello costituzionale) sulla giustizia, dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale nel febbraio scorso, con proprie sentenze nn. 56, 57, 58, 59 e 60 del 2022.

L’art. 75 della Costituzione disciplina l’istituto del referendum abrogativo, attraverso cui 500.000 cittadini o 5 Consigli regionali possono proporre al corpo elettorale di abrogare – ossia eliminare dall’ordinamento giuridico italiano – parzialmente o totalmente «una legge o […] un atto avente valore di legge».

La norma in esame fa riferimento alla legge intesa nel suo senso formale, ossia quella approvata dal Parlamento secondo il procedimento ordinario, nonché ai decreti legge e ai decreti legislativi; fonti, queste, che possono costituire oggetto di referendum abrogativo. La disposizione costituzionale, tuttavia, esclude dall’ambito di applicazione dell’istituto «le leggi tributarie, di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali», così come le previsioni di rango costituzionale, poiché sovraordinate rispetto alla legge ordinaria.

Ai fini della validità del referendum, devono partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto (Quorum di validità) e per l’abrogazione della norma oggetto del referendum stesso deve essere raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi in favore del “Sì”. In tale prospettiva, hanno diritto a prendere parte alla votazione tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati, secondo quanto disposto in materia di procedura referendaria dalla Legge n. 352/1970 recante “Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo”.

Sebbene il consesso elettorale possa essere chiamato a votare su più quesiti contemporaneamente, come per il referendum abrogativo del prossimo 12 Giugno, il singolo cittadino avente diritto ha la facoltà di esprimersi anche solo con riferimento a uno di essi. Nel dettaglio, votando a favore del “Sì”, gli elettori manifestano la loro volontà di cambiare l’assetto normativo, modificando la norma (Abrogazione parziale) o eliminandola del tutto (Abrogazione totale); se si esprimono per il “No”, invece, i cittadini decideranno di non apportare alcuna modifica alla normativa, lasciando invariato l’ordinamento giuridico.

I quesiti referendari sulla giustizia

I quesiti sui quali 51,5 milioni di elettori italiani saranno chiamati a esprimersi riguardano sia l’ordinamento giudiziario, con tematiche (separazione delle funzioni dei magistrati, intervento degli avvocati nei consigli giudiziari e cancellazione delle firme per le liste di candidati al CSM) già affrontate dal “Pacchetto Cartabia”, sia profili specifici in materia di processo penale e di contrasto alla corruzione.

La Lega e il Partito Radicale avevano presentato un sesto quesito concernente la responsabilità civile dei magistrati, il quale, tuttavia, è stato giudicato inammissibile dalla Corte Costituzionale, al pari di quelli sull’eutanasia attiva (c.d. “Omicidio del consenziente”) e sulla cannabis.

Entrando nel dettaglio della disamina, i quesiti referendari che vedranno impegnato il corpo elettorale Domenica 12 Giugno vertono: sull’abolizione del Decreto legislativo n. 235/2012 (c.d. “Decreto Severino”); sulla limitazione delle misure cautelari; sulla separazione delle carriere nella giustizia; sulla valutazione della professionalità dei magistrati; e, infine, sull’elezione dei componenti togati del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM).

Abolizione del “Decreto Severino”

Il primo quesito referendario, contrassegnato con la scheda di colore rosso, riguarda l’abrogazione del “Decreto Severino”, il quale attualmente prevede il divieto di ricoprire incarichi di governo e l’ineleggibilità o incandidabilità a elezioni politiche o amministrative, e la conseguente decadenza da tali cariche, per coloro che vengono condannati in via definitiva a pene superiori a 2 anni di reclusione per alcuni delitti, consumati o tentati, di maggiore allarme sociale (come la tratta di persone) o contro la Pubblica Amministrazione (quali corruzione, concussione, peculato) e per delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a 4 anni.

Il decreto in questione prevede, altresì, determinati criteri riguardanti l’incandidabilità alle cariche elettive regionali o negli enti locali, l’accertamento d’ufficio della condizione di incandidabilità con la cancellazione dalle liste, nonché la sospensione dalla carica in via automatica per un periodo massimo di 18 mesi, in caso di condanna non definitiva. Nell’ipotesi in cui dovesse prevalere il “Sì”, quindi, anche ai condannati in via definitiva per i reati sopra elencati potranno candidarsi o continuare il proprio mandato, con incandidabilità, incompatibilità e  sospensione che non saranno più automatiche, ma verranno decise da un giudice caso per caso. 

In tale prospettiva, i sostenitori del “Sì” ritengono che il “Decreto Severino” penalizzi gli amministratori locali nella misura in cui vengono sospesi in caso di condanna non definitiva, nonostante vi sia la possibilità che, in seguito, possano rivelarsi innocenti e privi di colpa nella consumazione del reato. Al contrario, chi si esprime a favore del “No” sottolinea la pericolosità di un’eventuale abrogazione della normativa in esame, consistente nel rischio di una maggiore diffusione di condotte criminose (associazione mafiosa, corruzione, concussione ecc…) all’interno della politica.

Limitazione delle misure cautelari

Con il secondo quesito referendario, identificato con la scheda di colore arancione, i proponenti richiedono di limitare i casi di applicazione delle misure cautelari. Nello specifico, si tratta di provvedimenti emessi da un giudice che incidono sulla libertà personale del soggetto nei cui confronti sono eseguiti (come gli arresti domiciliari), che trovano il loro fondamento normativo nell’art. 274 c.p.p.; una disposizione, questa, che elenca le c.d. “esigenze cautelari”, ossia quei presupposti (pericolo di fuga, rischio di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato da parte dell’indagato) che determinano l’applicazione delle misure in esame.

Il quesito referendario in oggetto mira ad abrogare l’esigenza cautelare della reiterazione del reato, ossia del rischio che il reato continui a essere commesso mentre la persona è sottoposta ad indagini. Tale esigenza, tuttavia, resterebbe per alcuni reati più gravi, quali «delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata».

In tale prospettiva, i sostenitori del “Sì” ritengono che, ad oggi, sussiste un forte abuso di tale esigenza cautelare, che comporta la limitazione della libertà personale – tramite custodia cautelare in carcere o arresti domiciliari – di soggetti non condannati e la conseguente violazione del principio della presunzione di non colpevolezza. Di contro, chi sostiene il “No” afferma che l’eventuale abrogazione comporterà una difficile applicazione delle misure cautelari con riferimento a ulteriori reati parimenti gravi, quali corruzione, stalking, estorsioni, rapine e furti.

Separazione delle carriere nella giustizia

Il terzo quesito referendario, contrassegnato dalla scheda di colore giallo, riguarda l’abrogazione di quelle norme che consentono ai magistrati di passare dalla funzione requirente alla funzione giudicante, o viceversa. Nello specifico, la prima viene esercitata dai pubblici ministeri, ossia quei magistrati che dirigono le indagini coadiuvati dalle forze di polizia giudiziaria e che rappresentano l’accusa; la seconda, invece, viene posta in essere nei giudici che emettono le sentenze sulla base delle prove raccolte e del contraddittorio tra l’accusa e la difesa, assumendo un ruolo c.d. di super partes.

La vittoria del “Sì”, in tal senso, imporrebbe ai magistrati di dover scegliere, sin dagli albori della loro carriera, se assumere il ruolo di pubblici ministeri o di giudici, non potendo più passare – come previsto dall’attuale normativa – da una funzione all’altra nel corso delle loro carriere professionali, seppur con delle limitazioni e per non più di quattro volte.

I sostenitori del “Sì”, con riferimento al quesito referendario in oggetto, ritengono che la separazione delle carriere nella giustizia garantirebbe una maggior imparzialità dei giudici, che non verrebbero contaminati dall’approccio punitivo della giustizia tipico dei pubblici ministeri. Chi si esprime a favore del “No”, invece, punta sull’inefficacia di tale separazione, tenuto conto che tanto la formazione, quanto il concorso per accedere alla magistratura e gli organi di autogoverno dei magistrati resterebbero in comune.

Al tempo stesso, gli oppositori al quesito sottolineano il rischio di un’eventuale isolamento del pubblico ministero dalla cultura della giurisdizione, che verrebbe sostituita da una vera e propria cultura dell’indagine e dell’accusa autonoma.

Valutazione della professionalità dei magistrati

Il quarto quesito referendario, riportato nella scheda di colore grigio, verte sulla modifica delle disposizioni che riguardano i membri laici – quali giuristi accademici e avvocati – del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari. Nello specifico, l’attuale normativa prevede che i magistrati vengano valutati ogni quattro anni sulla base di pareri motivati, ma non vincolanti, cui prendono parte non solo magistrati, ma anche avvocati e professori universitari di diritto; tuttavia, solo i primi possono esprimere il loro voto sulla valutazione degli altri magistrati.

Di conseguenza, se il collegio elettorale si pronunciasse in favore del “Sì”, anche la compagine laica costituita dagli avvocati e dai giuristi parteciperebbe alla discussione e alla valutazione in merito alla professionalità dei magistrati. In tale prospettiva, l’obiettivo dei sostenitori del “Sì” si configura nel rendere più oggettivi i giudizi sui magistrati, diminuendo il carattere autoreferenziale che contraddistingue le attuali valutazioni. 

Al contrario, gli oppositori alla modifica referendaria temono che conferire un ruolo attivo agli avvocati nella redazione di pareri nei confronti dei magistrati possa portare a valutazioni ostili, non obiettive e prevenute, stante la loro funzione all’interno dei processi: si pensi all’ipotesi in cui un magistrato si ritrovasse, nell’ambito di un procedimento, un avvocato che dovrà esprimere successivamente una valutazione sul suo operato, con evidente rischio di lesione della terzietà e imparzialità del giudice stesso.

Elezione dei componenti del CSM

L’ultimo quesito referendario, presente nella scheda di colore verde, riguarda il CSM, ossia l’organo di autogoverno della Magistratura che si prefigge lo scopo di garantirne l’indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato, esercitando funzioni di gestione sulle carriere dei singoli magistrati (trasferimenti, promozioni, assunzioni, provvedimenti disciplinari). Nello specifico, i promotori del referendum intendono incidere sulle disposizioni concernenti l’elezione dei membri togati del CSM, chiedendo l’abrogazione del requisito della lista di 25 firme di colleghi necessario affinché un magistrato possa candidarsi all’interno del CSM stesso.

In caso di vittoria del “Sì”, quindi, la raccolta firme verrebbe eliminata, determinando un ritorno in vigore della normativa del 1958, che consentiva a qualsiasi magistrato di potersi candidare in totale autonomia e libertà. Secondo i sostenitori del “Sì”, l’eventuale abrogazione delle norme in questione limiterebbe il potere delle c.d. “correnti”, sganciando di conseguenza il magistrato dall’obbligo di trovare accordi politici, riducendo la lottizzazione delle nomine e premiando più il merito che la stessa adesione politica.

Esprimendosi con segno opposto, chi supporta il “No”, invece, ritiene che la cancellazione della raccolta firme non eliminerebbe definitivamente l’influenza delle “correnti”, le quali – secondo alcuni – rappresentano dei catalizzatori positivi, poiché espressioni aggregazioni di persone che condividono ideali e principi comuni.


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