“It’s okay to not be okay”, uno slogan per la salute mentale degli atleti

Pensare agli atleti come a delle macchine capaci di grandi cose può essere facile, ma spesso finiamo per dimenticarci delle persone che stanno dietro a quella maschera.


La competizione, il brivido e l’adrenalina. Quando si pratica sport, ci possono essere mille motivi per sentirsi vivi, svegli, quasi eccitati. La cosa dovrebbe essere ancora più intensa ai livelli più alti, specialmente quando parliamo di Olimpiadi. Spettacolo, orgoglio di patria, tutto un insieme di luci che non potrebbe nascondere nulla. Come possiamo ben immaginare, la realtà dei fatti rimane ben diversa.

Le Olimpiadi di Tokyo 2020 sono atipiche per tantissimi fattori – oltre al più evidente, dato dal fatto che si stanno disputando nel 2021. Atleti che fanno coming out ed esplicitano le loro posizioni in merito alle tematiche LGBTQ+, l’annata particolare ancora flagellata dal Covid-19 e dai numerosi atleti positivi, in una Tokyo che sembra ancora sommersa dal virus. Nell’ultima settimana, in maniera ancora più plateale, è venuta a galla una verità di cui molti sapevano da tempo, ma della quale nessuno parlava: le ombre della pressione psicologica sugli atleti, con tutte le conseguenze del caso.

Non è esattamente un mistero che la visione sfolgorante di atleti che compiono gesta per noi quasi inconcepibili non può essere priva di lati oscuri. Forse per via dell’annata particolare, così mentalmente fiaccante per molti, quest’anno Tokyo si sta rivelando un vero e proprio palcoscenico per questo genere di discussioni.

Esempio più lampante, che salta immediatamente agli occhi, è il caso della ginnasta americana, Simone Biles, che proprio in questi giorni sta decidendo volontariamente di lasciare una gara dopo l’altra, parlando apertamente dei suoi problemi mentali e psicologici. La situazione di Biles potrebbe sembrare bizzarra agli occhi dei più: così vicini al tetto del mondo, per poi trovarsi a rinunciare, scegliendo di crogiolarsi in una debolezza che non avrebbe motivo di esistere. 

It's okay to not be okay
Simone Biles

In realtà, l’immagine presentata dai media non è poi così dissimile da questo commento; parlare in modo corretto di disturbi psicologici e mentali in relazione alle sfere più alte dello sport (e non solo), sembra oggi quasi un’impresa da medaglia d’oro per la maggior parte dei media, che finiscono con l’utilizzare terminologie poco adeguate e spesso sensazionalistiche. Il risultato che si ottiene, alla fine, è quello di impedire a persone molto meno in vista di esporre il proprio malessere psicologico o mentale, per via dello stigma che spesso viene associato a questo genere di argomento.

Attorno al malessere di Simone Biles, infatti, molti commenti sono stati negativi, e sono circolate molte voci sul fatto che il ritiro sarebbe associato ai ferrei controlli antidoping che a Tokyo sono stati anche più rigorosi del solito, e che le avrebbero impedito di prendere dei farmaci di uso personale per la cura dell’ADHD (Attention-deficit/hyperactivity disorder, ovvero deficit dell’attenzione e iperattività).

Eppure il problema che Biles ha citato, definito twisties, è qualcosa che esiste veramente; si tratta, in maniera molto semplificata, di “un blocco mentale che le fa perdere l’orientamento nello spazio durante l’esecuzione degli esercizi aerei”. Ovviamente, in una competizione di ginnastica, specie a livelli così alti, un simile blocco rischia di essere pericolosissimo per chi ne soffre, in quanto si perde effettivamente il controllo dei propri movimenti durante l’esercizio. 

Anche altre atlete hanno dichiarato di soffrire di questo disturbo, una volta che Simone Biles ha effettivamente aperto un vero e proprio vaso di Pandora con le sue dichiarazioni, in mezzo al supporto di molti fan e sostenitori, tra cui anche nomi noti come il cantante canadese Justin Bieber e la ex First Lady, Michelle Obama.

A Tokyo, inoltre, era presente un altro nome noto, che aveva addirittura raggiunto la copertina del Time con l’ormai celebre slogan it”s okay to not be okay: Naomi Osaka, la tennista che, dall’alto della sua seconda posizione nel ranking mondiale, aveva deciso di ritirarsi dal Roland Garros, perché aveva rifiutato di partecipare alle conferenze stampa dopo i match, in un gesto che veniva definito “il capriccio di un’atleta“. 

It's okay to not be okay
Naomi Osaka

Per questa sua scelta, aveva anche ricevuto minacce di espulsione e sanzioni, alle quali ha deciso di rispondere anticipando le mosse degli organizzatori e abbandonando la competizione, invece di cedere all’insistenza degli organizzatori e della stampa. Alle Olimpiadi di Tokyo, dove ha partecipato come atleta giapponese, rinunciando alla sua nazionalità americana, la tennista avrebbe dichiarato che, nonostante non si senta molto a suo agio nell’essere il volto della salute mentale, ritiene giusto parlare in favore di ciò che ritiene giusto. 

Naomi Osaka ha ricevuto il supporto e le congratulazioni di Michael Phelps, l’ex nuotatore statunitense, l’atleta più decorato della storia con il maggior numero di medaglie –  medaglie d’oro, medaglie individuali e medaglie d’oro individuali – e oggi avvocato della salute mentale degli sportivi, oltre a essere lui stesso dichiaratamente affetto da depressione. Non è esattamente l’unico sportivo che ha avuto problemi di natura mentale o psicologica nonostante l’altissimo rendimento: basti pensare che anche volti molto noti in Italia, come Gianluigi Buffon o Federica Pellegrini, hanno avuto i loro trascorsi personali associati a problematiche di salute mentale.

Ad oggi, in effetti, i problemi psicologici e mentali degli sportivi vengono spesso trascurati in favore di una concentrazione altissima sul fisico, in nome di un rendimento costante che sia in grado di garantire lo spettacolo dello sport ad altissimo livello, ma ad un carissimo prezzo. Solo in tempi più recenti questo argomento sta davvero ricevendo attenzione, tanto che la figura dello psicologo dello sport sta prendendo piede per seguire gli atleti nei momenti più pesanti. Non dovremmo mai dimenticare il fatto che gli atleti sono persone proprio come noi e che, tanto per noi quanto per loro, “it’s okay to not be okay”.


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Marco Cerniglia

Amo i viaggi, la storia, la tecnologia, la letteratura e soprattutto la scrittura, la mia passione di sempre che pratico anche per diletto.