Proteste a Cuba, i fatti oltre i pregiudizi e le ideologie

Prosegue la mobilitazione politica a Cuba, tra chi accusa il governo per la crisi economica e sanitaria e chi invece punta il dito contro gli Stati Uniti.


Da una settimana a questa parte, Cuba è attraversata da proteste e contromanifestazioni, rispettivamente contro e a favore del governo. Diversamente dal racconto semplificato e preconfezionato dei media nostrani, che negli ultimi giorni hanno espresso in modo corale e pressoché unanime dure sentenze di condanna nei confronti del governo cubano, la situazione politica a Cuba è molto più complessa. Ed è ancora più complicato parlare a nome del popolo cubano senza lasciarsi condizionare da pregiudizi ideologici, indipendentemente dal loro colore politico.

Partiamo dai fatti. La protesta è partita domenica 11 luglio da San Antonio de Los Baños, una cittadina a sud della capitale L’Avana, e in poco tempo si è estesa in tutto il paese. Tre le principali ragioni espresse dai manifestanti: la crisi economica, la cattiva gestione della pandemia da coronavirus, l’insoddisfazione nei confronti del governo di Miguel Díaz-Canel

Nei primi giorni delle proteste la risposta del governo è stata dura, con scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, arresti e una vittima: le circostanze della morte sono ancora incerte, con versioni discordanti sulla dinamica dell’accaduto. Di fronte a una protesta inaspettata, Diaz-Canel ha reagito accusando gli Stati Uniti di essere gli artefici delle manifestazioni, e invitando il popolo cubano a scendere in piazza per difendere la rivoluzione.

Chi non conosce la realtà cubana potrebbe pensare che quell’invito fosse un tentativo disperato da parte del partito comunista cubano di difendere sé stesso e il proprio potere su una società ormai stanca di un’ideologia sepolta dalla storia e via elencando le solite rassicuranti banalità liberali sul socialismo e sul ventesimo secolo che ormai è finito. 

Sta di fatto che, dopo alcune concessioni e la parziale assunzione di responsabilità da parte di Diaz-Canel per lo stato di cose esistenti nel paese, un pezzo di società cubana ha risposto all’appello del presidente. Nella giornata di sabato, migliaia di persone hanno marciato lungo le strade della capitale, difendendo il governo e denunciando l’embargo degli Stati Uniti come causa principale del malcontento diffuso.

Al netto delle prese di posizione da una parte o dall’altra di un conflitto che da sempre attraversa la società cubana, tra chi sostiene la rivoluzione e chi si augura un cambio di regime, le condizioni di vita attuali a Cuba sono dure. La crisi economica e sanitaria seguita alla pandemia è tra le peggiori della storia dell’isola: l’assenza di turismo ha privato molti cubani di una fonte di reddito non indifferente e la disponibilità di beni di prima necessità è gravemente ridotta.

Tuttavia, sarebbe un esercizio di disonestà intellettuale affermare che l’unico responsabile della crisi sia il governo. Al netto infatti dei limiti di un’economia quasi totalmente centralizzata nelle mani dello Stato e delle inefficienze (inevitabili) della sua burocrazia, parte delle difficoltà economiche sono la conseguenza dell’embargo statunitense nei confronti di Cuba, inaugurato all’indomani della rivoluzione di Fidel Castro e aggravato dalla legge Helms-Burton del 1996, fino alle ulteriori restrizioni stabilite dall’amministrazione Trump.

Joe Biden non sembra intenzionato a superare l’embargo, nonostante il parere della comunità internazionale. Il 23 giugno scorso, l’Onu ha infatti approvato una risoluzione per la fine dell’embargo a Cuba. La decisione è stata approvata quasi all’unanimità, con l’unica eccezione di due stati che hanno votato contro: Stati Uniti e Israele. 

La durezza della politica estera degli Stati Uniti nei confronti del governo cubano non sembra dunque mutata al mutare delle condizioni geopolitiche. Se ai tempi della Guerra Fredda le ragioni geopolitiche erano evidenti, oggi che non esiste più nessuna Unione Sovietica pronta a utilizzare l’isola come avamposto di un’offensiva nei confronti della superpotenza americana è lecito interrogarsi sui motivi di questa contrapposizione.

Se si trattasse di una sincera opposizione ideologica alle dittature in difesa dei valori democratici, sarebbe lecito chiedersi perché gli Stati Uniti non abbiano riservato lo stesso trattamento ad altri regimi autoritari in cui il partito al governo non si richiama al socialismo. 

Altrettanto improbabile che si tratti di un tentativo di appropriazione delle ricchezze di un’isola che ricca non è e che sopravvive grazie alle importazioni di beni dall’estero. Una società che, nonostante tutto, è riuscita da sola a produrre due vaccini contro il covid-19 e ha fornito aiuto medico a molti paesi nel mondo, Italia compresa.

Al di là delle ragioni della politica estera statunitense, le conseguenze dell’instabilità a Cuba non sono necessariamente e inevitabilmente buone per gli Stati Uniti. Se c’è una cosa che il decennio appena trascorso ha insegnato è che l’instabilità, nella stragrande maggioranza dei casi, produce effetti nefasti se lasciata totalmente a sè stessa. Gli strascichi delle primavere arabe, le vicende nel Donbass in Ucraina, la guerra in Siria sono solo gli esempi principali.

Che succederebbe se gli Stati Uniti supportassero (materialmente e non solo ideologicamente) le proteste antigovernative con un intervento armato (come chiedono i più agguerriti tra i falchi repubblicani) o spingessero concretamente per un cambio di regime? Date le divisioni presenti nella società cubana, con una fetta di popolazione che continua a sostenere il governo, non si tratterebbe di un processo ordinato. Ed è difficile che Russia e Cina resterebbero a guardare.

Alla luce di queste considerazioni, l’unica scelta reale per gli Stati Uniti sembra dunque quella tra stabilità e instabilità, ovvero tra superamento o meno dell’embargo. Senza questa decisione, nessun governo cubano (comunista o no) potrà mai andare incontro ai bisogni e ai desideri della società che governa.