Cina, Stati Uniti e lo scramble for Africa

Con lo sviluppo del progetto noto come One Belt One Road, le priorità ideologiche della cooperazione sino-africana si sono trasformate in esigenze economiche e commerciali.


La presenza penetrante del dragone asiatico sul continente africano non è una novità: nel corso degli anni, i  Foreign Direct Investments (FDI) cinesi in Africa sono aumentati da 75 milioni di dollari nel 2003 a 2,7 miliardi di dollari nel 2019, trasformando la Cina nel principale partner commerciale dell’intero continente. L’importanza di queste relazioni – a livello regionale e globale da un punto di vista prettamente geopolitico – è stata evidenziata dalla nascita del Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC) che ha istituzionalizzato i rapporti tra il dragone e gli Stati africani, facendo emergere entrambi come attori di una certa rilevanza sullo scacchiere globale. 

Il FOCAC e la retorica della cooperazione Sud-Sud

Nel 2000, anno in cui venne creato il FOCAC, si assiste ad un cambio di velocità e di contenuto nelle relazioni sino-africane, fino ad allora improntate su una cooperazione per lo più diplomatica, alla cui base persisteva l’ideologia socialista che aveva permeato le relazioni sin dagli anni ’50. Proprio in quegli anni, nacque la retorica della cooperazione Sud-Sud, una cooperazione solidale e reciproca tra stati considerati sottosviluppati, provenienti dal Sud del mondo, contro il colonialismo e neo-colonialismo occidentale, basata sugli scambi di tecnologia, risorse e conoscenze. 

Tuttavia, le priorità ideologiche di questo tipo di cooperazione si sono trasformate in esigenze (e imposizioni) economiche e commerciali, portando il presidente Xi Jinping a inaugurare nel 2013 il progetto noto come One Belt One Road (OBOR). Trasformatosi nel 2015 nella Belt and Road Initiative (BRI), il programma ufficiale presenta un piano di investimenti a lungo termine a livello transcontinentale, che punta allo sviluppo infrastrutturale e all’accelerazione del processo di integrazione economica di tutti quei Paesi presenti sulla traiettoria della storica via della seta. 

La BRI dovrebbe promuovere la connettività tra Asia, Europa e Africa, puntando al rafforzamento delle partnership con gli emerging markets e a un tipo di sviluppo sostenibile. Nonostante, dunque, il programma venga presentato come vantaggioso per tutte le parti coinvolte negli accordi, bisogna riconoscere che la Cina e gli stati dell’Africa coinvolti non occupano la stessa posizione né esercitano la stessa influenza sullo scacchiere internazionale: questa situazione ha permesso al governo di Pechino di farsi carico di una grandissima parte del debito pubblico africano e a gestire la crisi indotta dalla pandemia di coronavirus. 

Nell’ambito del FOCAC, la Cina ha inviato equipe mediche in più di 50 nazioni africane, 30 milioni di test, 10mila respiratori e 80 milioni di mascherine. L’ occasione è poi servita al presidente Xi Jinping per riconfermare lo stanziamento di 2 miliardi di dollari in due anni destinati ai paesi in via di sviluppo più colpiti – tra cui l’Africa rientra a pieno titolo, secondo i piani di Pechino – e confermare l’avvio dei lavori per costruire la sede generale dell’African Centres for Disease and Control Prevention dell’Unione Africana ad Addis Abeba e promettere che il continente sarà tra i primi a ricevere il vaccino “made in Cina”.

Ulteriore motivo di interesse per la Cina in Africa è la creazione di un mercato per le proprie aziende, in settori ormai saturi nel continente asiatico. Di conseguenza, la Cina è diventata un partner commerciale sempre più importante per il continente, fino a superare nel 2009 gli Stati Uniti, facendo salire il valore del commercio bilaterale sino-africano fino al picco del 2014 di 220 miliardi di dollari. Inoltre, il continente ospita l’unica base militare cinese all’estero, a Gibuti, e vede una massiccia presenza militare nel Corno d’Africa, accanto alle truppe statunitensi. 

Cina e Stati Uniti: forze concorrenti in Africa 

Il consolidamento della forza asiatica in Africa e la sua corsa all’accaparramento di “terre rare” (rare earth elements, REE) – ovvero 17 elementi chimici classificati come metalli la cui importanza strategica deriva dal loro massiccio utilizzo nell’industria dell’elettronica di consumo, nel settore militare e nelle componenti di prodotti necessari per la transizione energetica – è stata messa fortemente in discussione da un rinnovato impegno degli Stati Uniti nella propria affermazione come potenza egemone a livello globale. 

A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, gli Stati Uniti hanno adottato uno stile aggressivo e predatorio nel contesto della politica estera all’interno del continente africano, rendendo la strategia di “soft power” di Pechino un modello e punto di riferimento alternativo potenzialmente più attrattivo rispetto a quello occidentale. 

Ad oggi, questa rivalità si è trasformata nella proposta americana del piano Build Back Better World (B3W). Presentato al G7 di Carbis Bay, il piano rappresenta l’espansione globale del Build Back Better nazionale, presentato in patria per ricostruire l’economia statunitense dopo la pandemia. L’iniziativa dovrebbe creare una rete di supporto per i Paesi definiti “in via di sviluppo” – ovvero a basso e medio reddito – dotandoli di infrastrutture adeguate e fornendo un certo grado di attrattività per gli investimenti esteri. 

Come ha dichiarato il presidente Biden, il piano dovrebbe fornire un’alternativa alla Cina, sfidando apertamente le iniziative promosse sullo sfondo della BRI. I paesi del G7 si sono detti disposti a collaborare, nell’ottica più ampia di contrastare le sfide rappresentate dalla Cina. 


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