A Portella della Ginestra c’era il bandito Giuliano, la mafia e chi altro?

Primo maggio 1947, sono passati 74 anni. Troppe le ombre che persistono ancora oggi sui motivi e sui mandanti della strage di Portella della Ginestra. 


A Portella della Ginestra la festa del Primo maggio del 1947 è rossa. Rossa perché questa festa arriva dopo il Ventennio fascista, di nuovo, nella piccola comunità in provincia di Palermo. Rossa perché le elezioni regionali sono state appena vinte con un’alleanza tra Partito Comunista e Partito Socialista, il “Blocco del Popolo”, risultato che fa gioire i contadini desiderosi di una riforma agraria da parte dell’Assemblea regionale siciliana. Rossa, infine, perché muoiono 11 persone – 9 adulti e 2 bambini – barbaramente uccise in un episodio che ancora oggi fa discutere. Troppe le ombre che persistono sui motivi e sui mandanti della strage di Portella della Ginestra

Il contesto: una Sicilia meno separatista

Dopo il Secondo conflitto mondiale la mobilitazione agraria portò consensi al blocco social-comunista, a discapito di monarchici e separatisti, questi ultimi quasi “in via d’estinzione” dopo la cosiddetta “amnistia Togliatti” dell’estate ‘46 che aveva consentito ai vertici dell’esercito separatista di evitare le patrie galere. Fu un momento particolare nella vita politica della Sicilia: il movimento di occupazione delle terre, le richieste di riforma, le lotte sindacali mettevano in crisi la grande proprietà e il latifondo, difesi all’epoca dal Fronte Qualunquista (liberali e anticomunisti) e dal Partito Nazionale Monarchico. 

Nelle campagne dominate dai grandi proprietari, in quegli anni che vanno dalla fine degli anni Quaranta e nei successivi vent’anni, si fece strage di sindacalisti, uccisi in agguati mafiosi o in vere e proprie operazioni terroristiche. Quella di Portella della Ginestra potrebbe non fare eccezione. Potrebbe perché a presenziare sul pulpito davanti una modesta folla di gente in festa, non c’era solo un sindacalista, o un politico del Blocco del popolo o un amministratore locale, ma anche una madre, un bambino, un giovane contadino, un artigiano, un lavoratore qualunque che festeggiava il suo Primo maggio con i suoi compaesani. Non fu un attacco mirato. Fu un massacro.

Quella mattina del Primo maggio del ‘47

Portella della Ginestra, località nel comune di Piana degli Albanesi in provincia di Palermo, non è altro che una zona montana, una “gola delle ginestre”, come viene definita nella lingua locale (l’albanese) «Gryka e Spartavet». È anche luogo storico di aggregazione per proclami o per eventi come quello del Primo maggio che, in quella mattina del 1947, era una festa dei lavoratori in ogni senso. 

Alle 9.30 circa si sentirono delle esplosioni sulle prime parole di quell’assemblea improvvisata nel verde dei prati e nel giallo delle ginestre. L’idillio cambiò presto colore: gli applausi a quelli che sembravano petardi diventarono urla di terrore quando, sul palchetto, cominciarono a crollare alcuni astanti nel sangue. 

Oltre agli 11 morti – che diverranno 13 – ci furono 33 feriti. Leggere i nomi delle vittime, scorgervi persone comuni, donne, uomini e bambini uccisi in un’assolata giornata di festa, è il minimo tributo che gli dobbiamo: Vito Allotta, Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, Lorenzo Di Maggio, Filippo Di Salvo, Giovanni Grifò, Castrense Intravaia, Vincenzina La Fata, Serafino Lascari, Giovanni Megna e Francesco Vicari, quasi tutti giovanissimi.

Perché quindi vennero segnati 13 nomi nel conteggio successivo della strage? Vito Dorangricchia morì alcuni giorni dopo a causa delle ferite; Vincenzo La Rocca, padre di Cristina (una bambina di nove anni ferita ma sopravvissuta), morì qualche settimana dopo, stremato dallo sforzo per aver portato sulle spalle la figlia fino a San Cipirello, un paese a circa dieci chilometri di distanza; Emanuele Busellini fu invece ucciso dai banditi che l’avevano incontrato lungo la strada mentre si recavano sul luogo della strage.

I colpevoli e i mandanti della strage di Portella 

A sparare furono il bandito Giuliano e la sua banda. Quella di Portella della Ginestra è stato un massacro pianificato, orchestrato da mandanti mafiosi (e altri occulti secondo alcune ipotesi) che su quelle terre non sopportavano che i contadini parlassero di diritti e organizzazione. Le mani della banda di Salvatore Giuliano, un killer conosciuto fino in America, vennero armate – incredibilmente, come si ipotizza – grazie a una parte dei soldi raccolti per la festa patronale a Piana degli Albanesi.

Recenti perizie della balistica e diversi ritrovamenti di reperti hanno rivelato la presenza di fuoco incrociato a partire da diversi punti intorno alla località, punti che potrebbero corrispondere sia al monte Pelavet che al monte Kumeta, rilievi che sovrastano Portella della Ginestra, uno di fronte all’altro. Che si sia trattato di un dispiegamento quasi “militare” di forze? Gli armamenti utilizzati, data la notevole distanza, lo erano di certo.

Secondo un’ipotesi popolarmente consolidata – e non solo – il bandito Giuliano avrebbe agito con la promessa di ottenere l’amnistia, in quanto ex vertice militare dell’esercito separatista siciliano, esperienza “bellica” definitivamente conclusa poco tempo prima. Sullo sfondo, una sorta di primitiva trattativa stato-mafia.

“Una strage per avere la libertà”, questa la promessa dei mafiosi. Promessa disattesa, tanto che Giuliano viene prima tradito e poi “consegnato” ai Carabinieri che uccideranno, nel corso degli anni dopo la strage, lui e i sicari che lo hanno affiancato a Portella della Ginestra («per non lasciare testimoni», dirà qualche malevolo).

Interrogativi inquietanti

Ma si è trattato di una inquietante “coincidenza di interessi” o di un atto mafioso in ottica anticontadina? Nel primo caso, il terrorismo contro comunisti, sindacalisti e lavoratori favorevoli alla riforma agraria, avrebbe potuto trovare sponda nel tessuto “feudale” mafioso così come nello Stato democratico appena costituito dagli alleati americani – che avevano accordato il potere di tantissime comunità regionali a grandi proprietari e “padrini” affermati

Nel secondo caso, l’attacco sistematico di ogni istituzione e personalità della sinistra e dei sindacati – com’è avvenuto per Placido Rizzotto, per Accursio Miraglia, e per le sedi comuniste di Borgetto, Monreale, Cinisi, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Terrasini – sarebbe stato il tentativo estremo di intimidire e annichilire le energie riformiste e progressiste dell’Isola. Furono infatti una quarantina gli attacchi stragisti contro la Camera del lavoro siciliana, e furono tante le uccisioni (Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Francesco Renda, Sellerio).

La versione delle autorità resta quella per cui Salvatore Giuliano avrebbe sparato contro quella gente a Portella della Ginestra – in quello che sembra un tiro a segno – perché non lo lasciavano passare sulle loro terre. Un “professionista” come lui era senza dubbio un sicario assoldato per scatenare il terrore: per conto di chi o di quali mandanti politici è difficile dirlo. Chi poteva rivelare «informazioni importanti» è stato ucciso dalle forze dell’ordine in situazioni poco chiare e cruente.

Oltre all’oscurità che avvolge ancora tantissime questioni, tantissime morti nelle campagne come nelle questure, su Portella della Ginestra sarebbe adatto ricordare il monito di Emanuele Macaluso, una vita di sinistra e sindacato giunta al termine pochi mesi fa: «Collocata nel tempo e nelle condizioni politiche dell’Italia di allora, fu una strage di Stato. Da allora nella storia della Repubblica restano interrogativi inquietanti, che non si possono eludere perché sono cruciali per la nostra democrazia». Continuare a interrogarsi e scavare nella memoria italiana alla ricerca di verità – talvolta di frammenti di questa – è essenziale per il futuro del nostro Paese.

Copertina dal film “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi