L’eternità di Evelyn McHale: il suicidio più bello del mondo

Lanciandosi dall’86esimo piano dell’Empire State Building, Evelyn McHale lasciò per sempre l’immagine del suo corpo privo di vita, stupendo, eterno, fonte di ispirazione per artisti come Andy Warhol e David Bowie. Ma lei voleva solo l’oblio.


Può un suicidio essere considerato bello, addirittura il più bello del mondo? Strano ma vero, questo ossimoro è accostato a una foto che non solo fece il giro del mondo, ma che rimase nella storia. La “morte immortalata” è quella di Evelyn McHale che tutto voleva, fuorché esser ricordata. Aveva 23 anni quando la giovane americana decise di togliersi la vita, il Primo maggio dell’ormai lontano 1947: un salto nel vuoto, dalla cima dell’Empire State Building, decretò la sua fine.

La domanda più ovvia sarebbe: cosa può spingere una giovane donna, anche affermata lavorativamente e prossima al matrimonio con un uomo che la ama – e che le rimarrà fedele sempre anche dopo la sua morte – a mettere un punto così drastico alla sua esistenza? Probabilmente le ragioni sono da ricercare nel suo passato, in un disagio latente, celato, che ha poi trovato sfogo nel peggiore degli epiloghi.

La storia di Evelyn McHale

Evelyn nasce nel 1923 in una famiglia numerosa, è la sesta di sette figli. La sua vita è costellata dai trasferimenti, di città in città, dovuti al lavoro del padre. E ciò era destabilizzante: neanche il tempo di metter radici in un luogo che subito dovevano essere sradicate, per affondarle chissà dove. La madre di Evelyn, Helen, in preda a una grave depressione – forse consolidata dai continui spostamenti – divorziò dal marito, a cui lasciò i sette figli da crescere, da solo. Nessuna reazione, solo l’ennesimo trasferimento a Tuckahoe, New York dove Evelyn riuscì a portare a termine la High School.

Evelyn McHale
Evelyn McHale

Forse sogno, forse abitudine, forse voglia di indipendenza, la giovane entrò a far parte delle Woman’s Army Corps, il Corpo Femminile dell’Esercito: una vita da girovaga che, a quanto pare, non le lasciò un buon ricordo. Al suo ritorno nella Grande mela, infatti, bruciò la divisa. Il ritorno a New York ebbe però dei risvolti sentimentalmente interessanti: Evelyn conobbe Barry, con cui condivise una parte della sua breve vita.

Il giorno della fine e dell’inizio dell’eternità

Il 30 Aprile 1947 Evelyn si recò in Pennsylvania per il compleanno del fidanzato. Tornò a New York in treno la mattina del Primo maggio. Era una giornata nuvolosa, così come probabilmente la mente della giovane donna, offuscata ma ben chiara negli intenti e nelle volontà che si apprestò a scrivere su un foglio durante una sosta, prima dell’arrivo alla sua meta, l’Empire State Building.

Alle 10:30 dello stesso giorno, acquistò un biglietto d’ingresso per la terrazza panoramica del grattacielo, situata all’86esimo piano. L’agente John Morrisey, che in quel momento regolava il traffico stradale, fu distratto da una sciarpa fluttuante nel cielo e di lì a pochi secondi, il boato: il corpo di Evelyn McHale, che si era lanciata nel vuoto, giaceva sul tettuccio di una limousine delle Nazioni Unite, parcheggiata sulla 34esima strada.

Il suo corpo, intatto, sembrava essere avvolto dal sonno che puntualmente ci coglie ogni notte e strideva con tutto ciò che l’impatto aveva provocato: finestrini in frantumi, lamiere sfondate e contorte. Evelyn sembrava adagiata, come se delle mani invisibili avessero cercato di attutire lo schianto, come se quella bellezza deturpata da ricordi nocivi che gravavano sulla sua mente, deteriorandola, non dovesse essere altresì deturpata all’esterno da una morte che non è venuta a bussare ma che lei ha scelto di incontrare.

Evelyn era composta, così come il suo soprabito piegato e lasciato lì, in quella terrazza panoramica che divenne il suo tetro “trampolino di lancio”, insieme a una borsetta per il trucco, una foto di famiglia e un taccuino nero.

L’intento di Evelyn era quello di cancellare la sua esistenza, anche dalle menti di chi l’ha cresciuta, vissuta, conosciuta così come scrisse in quel suo biglietto, in quelle righe di addio. Si rivolse al fidanzato: «Vivrai meglio senza di me, non sarei una brava moglie per nessuno».

E poi, a chi avrebbe recuperato il corpo: «Non voglio che nessuno, della mia famiglia o meno, veda alcuna parte di me. Potete distruggere il mio corpo cremandolo? Prego voi e la mia famiglia: non voglio nessun funerale o commemorazione. Il mio fidanzato mi ha chiesto di sposarlo a giugno. Starà molto meglio senza di me. Dite a mio padre che ho preso troppe tendenze da mia madre». Un colpevolizzarsi, insomma, credendo di non essere abbastanza o di essere troppo simile al suo emblema di fragilità e, infine, quel desiderio di oblio non esaudito.

L’agognato oblio che mai arrivò

Per un caso o forse per un gioco del destino, come se questo non volesse sentire le ultime volontà di Evelyn, nel momento dello schianto passava di lì un giovane fotografo, il ventunenne Robert Wiles che, munito della sua macchina fotografica, non esitò a farsi spazio tra il crocchio di persone formatesi attorno alla “bella addormentata” per scattare la foto – dopo quattro minuti dal volo – che passò alla storia come “il suicidio più bello”, consacrando la giovane donna non solo a icona del ‘900 ma altresì all’eternità, dalla quale avrebbe solo voluto fuggire.

Evelyn McHale
Il corpo senza vita Evelyn McHale immortalato da Robert Wiles

Lo scatto del giovane studente di fotografia, che sognava di diventare fotoreporter, fu pubblicato il giorno successivo come foto della settimana su Life Magazine, corredata dalla seguente didascalia: Ai piedi dell’Empire State Building il corpo di Evelyn McHale riposa in pace in una bara grottesca, il suo corpo si è schiantato sul tetto di una macchina.

Tuttavia, questa fu l’unica foto che Robert Wiles abbia pubblicato e di lui non se ne seppe più nulla. Giusto il tempo, però, di elevare a icona pop la giovane che non avrebbe mai voluto probabilmente tutto ciò: il suo corpo morto ispirò Andy Warhol per una sua opera, Suicide (Fallen Body), ma anche l’istrionico David Bowie il quale, nel brano Jump they Say del 1993, reinterpreta il salto nel vuoto e l’elegante posa assunta inconsapevolmente dalla  donna.

Il suicidio di Evelyn ha ispirato la stesura del romanzo di Nadia Busato Non sarò mai la brava moglie di nessuno, spettacoli teatrali e neologismi: si inizierà a parlare di “effetto Evelyn”, indicando così i ritratti di donne che univano compostezza e tragicità.

Tutto ciò è parecchio curioso: la morte e l’oblio erano ciò che la donna bramava. Ma se la prima è riuscita a incontrarla, il secondo non volle ingoiarla e, coadiuvato dal caso, la lasciò ai posteri nella sua eterna bellezza.


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