Il sofa-gate non cambierà i rapporti tra Europa e Turchia
Il sofa-gate e le parole di Draghi non cambieranno il cuore delle relazioni tra Europa e Turchia. Entrambe le parti, purtroppo o per fortuna, hanno troppo da perdere.
Il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan non ha certamente fatto una figura da cavaliere quando, mercoledì scorso, ha deciso di non offrire una sedia per la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen (vicenda ormai ribattezzata “sofa-gate”). Un atto ostile: forse perché donna o semplicemente perché leader di una delle istituzioni più importanti nel panorama sovranazionale. Interpretazione libera.
Potremmo parlare ore delle responsabilità. Certamente sia il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel che la diretta interessata avrebbero potuto pretendere più rispetto nei confronti delle due figure principali nella gerarchia europea. Ma il punto non è questo. Il punto è che le relazioni tra Turchia ed Europa sono ai minimi storici, eppure nessuna delle due parti può fare a meno dell’altra. Per questo non muteranno.
Sono anni in cui il discorso di una possibile entrata della Turchia nell’UE è bloccato. Le difficoltà non riguardano solo fattori culturali o religiosi ma anche e soprattutto una questione di numeri. La popolazione turca, di 82 milioni circa e in crescita esponenziale, è seconda solo alla Germania, con i suoi 83 milioni. Ciò significa che in prospettiva il Parlamento Europeo avrebbe una maggioranza turca, cambiando radicalmente il volto politico, economico, e sociale del Continente.
Storicamente, l’avvento di Erdogan alla presidenza della Turchia ha accresciuto la tensione tra Ankara e Bruxelles. La Turchia chiedeva all’UE principalmente la modernizzazione dell’Unione doganale che la lega all’Europa dal 1996, basata sull’accordo di Ankara del 1963. Ma l’approccio geopolitico del presidente turco ha riposizionato il Paese verso relazioni lontane da quelle europee.
Negli ultimi anni la Turchia ha un ruolo da protagonista in tre aree di conflitto: la Siria, la Libia e le acque greco/cipriote contese con l’Europa. Sempre con posizioni sistematicamente in conflitto con i valori liberal-democratici alla base del sistema europeo.
La visione neo ottomana, indicata dal teorico Ahmed Davotoglu come approccio alla politica estera del presidente turco, è significativa. La Turchia lavora per un pragmatismo regionale. Ha stretto rapporti importanti con il Qatar, che nel 2018 “regalò” alla Turchia 15 miliardi di dollari dopo che la lira turca aveva subito una perdita del 40 per cento del valore. Ha ricentrato il dibattito turco sul conflitto tra Israele e Palestina, riportando il conflitto – e specialmente Gerusalemme – su un asse pan-islamico. In sintesi, la Turchia si è mossa per rendersi indipendente dall’Europa, cercando di diventare competitor e al contempo partner fondamentale.
Mario Draghi misura bene le parole – ricordiamo il whatever it takes che parzialmente salvò l’Europa dal default nel 2012. La definizione di dittatore che ha riservato a Erdogan non è casuale.
La Turchia infatti gestisce gli stretti del Mar Nero in virtù della convenzione del 1936. Negli stretti si può rimanere un massimo di 21 giorni, fatta eccezione per i Paesi affacciati sul Mar Nero. Il canale di Istanbul, esente dal trattato, consentirebbe agli americani – con il permesso di Erdogan – di rimanere più a lungo, infastidendo i russi. Un lavoro che Biden, nonostante la sistematica violazione dei diritti umani di Erdogan, sembra deciso a voler concludere.
Ciò significa che la Turchia spera in uno scambio di favori con gli Stati Uniti e si aspetta indifferenza rispetto al suo coinvolgimento in Libia, territorio su cui Erdogan sta puntando molto e sul quale è in conflitto con l’Europa e con la Russia. In breve, gli USA e la Turchia hanno un nemico in comune in due battaglie diverse: Vladimir Putin.
Un avvicinamento, quello tra Turchia e USA, che non è passato inosservato agli occhi di Draghi, il quale ha subito deciso di recarsi in Libia per far capire a Biden che con i dittatori – specie se si pensa di essere la patria della libertà e della liberal democrazia – non si deve trattare.
La visita di Draghi a Bengasi – territorio tripolitano in questo momento sotto “gestione” turca da parte del nuovo primo ministro Abdul Hamid Dbeibah – e le parole su Erdogan sono quindi strategiche in termini geopolitici per tutta l’Unione. La Libia è un partner centrale per l’Europa, sia per risorse come il petrolio sia rispetto al tema dei migranti. Ad ammetterlo è stato lo stesso Mario Draghi.
L’Europa è ancora dipendente dalla Turchia per il mantenimento dei rifugiati libici. La situazione dei rifugiati siriani in Turchia – si parla di 3,6 milioni nell’ottobre 2019, stando ai dossier rilasciati dalle Nazioni Unite – finanziati dall’UE per rimanere fuori dai confini europei lascia a Erdogan il potere ricattatorio di scatenare un’altra crisi migratoria. Una crisi temutissima, che potrebbe sfociare in un aumento drastico dell’euroscetticismo e in un’ulteriore frammentazione dell’UE.
Da parte turca, l’allontanamento radicale dalla liberal-democrazia – emblematico l’abbandono della convenzione di Istanbul – è evidente. Tuttavia, la Turchia non è in una posizione ideale per compromettere i rapporti commerciali con l’UE. Dopo la rimozione del governatore della Banca centrale, il 25 marzo scorso la lira turca ha perso il 15 per cento, con una svalutazione pari al 30 per cento rispetto al dollaro tra gennaio e novembre 2020.
Al contempo, l’UE non può permettersi di sanzionare o ricattare Erdogan su temi cruciali come le violazioni dei diritti umani per via dell’accordo sui migranti. In sintesi, la brutta figura del sofa-gate e le parole di Draghi non cambieranno il cuore delle relazioni tra Europa e Turchia. Entrambe le parti, purtroppo o per fortuna, hanno troppo da perdere. Almeno per ora.
Andrea Manzella
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