Musica imbavagliata: l’Italia del “boom” delle censure

Musica e censura nell’Italia conservatrice e pudica. Dal fascismo alla Rai, ecco l’arte imbavagliata all’italiana e le vittime eccellenti del “signor censore”.


Da sempre esistita per uno scopo politico o per tutela del “comune senso del pudore”, la censura sulle arti, in particolare sulla musica, coinvolge diversi e lontanissimi contesti sociali. Parlando del Belpaese, la censura è una storia che attraversa tutte le ere della canzone italiana. La “purga” ha colpito nei decenni proprio tutti – anche personaggi impensabili – per preservare un presunto costume italiano, senza curarsi della libertà d’espressione che l’arte, massima manifestazione umana, rappresenta.

Il “brutto”, l’osceno o il disgustoso sono stati spesso presi di mira dal controllo preventivo calato dall’alto. Non sta a noi qui discutere cosa e come debba essere bandito in favore di un interesse superiore o, detta brutalmente, di una bellezza superiore giudicata più meritevole. È importante non solo leggere chi e come è stato oggetto di attenzioni, in negativo, del grande bavaglio dell’italico pudore, ma anche attraversare i decenni tenendo a mente le problematiche e i contesti sociali presenti di volta in volta.

Quali sono gli sfortunati protagonisti di questo giudizio calato dall’alto sulle proprie opere? L’Italia ha molto da raccontare sull’arte imbavagliata. Il primo personaggio con cui vogliamo cominciare appartiene alla grande musica classica, niente meno che Giacomo Puccini. Pare infatti che un suo verso contenuto nella “Tosca” fosse troppo osé, e che le curve femminili fossero troppo esplicite per un’opera lirica esordiente nel gennaio del 1900. L’Ufficio di Censura dei Pubblici Spettacoli impose infatti la modifica delle parole «Le belle forme disciogliea dai veli» in un più composto «Le belle chiome (…)». Così fu per il libretto che ha come autori Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. Nel mondo contemporaneo costellato di libertà di forme e colori, un episodio del genere fa sorridere. Ma quella accennata nudità poteva destare scalpore e rovinare per sempre – chi lo sa – una delle più grandi opere di tutti i tempi, mettendola da parte per la sua “volgarità”.

Un nome che di lì a pochi anni avrebbe letteralmente terrorizzato artisti e compositori: Ministero della Cultura Popolare. Stiamo parlando dell’avvento del fascismo e del suo ministero capace di porre un pesantissimo veto su un qualunque brano da trasmettere via etere o da cantare in pubblico.

Immaginando quel tono roboante tipico di qualche annunciatore fascista, leggiamo sul Popolo d’Italia del 30 marzo 1928: «È nefando e ingiurioso per la tradizione e per la stirpe riporre in soffitta violini e mandolini per dare fiato a sassofoni e percuotere timpani secondo barbare melodie che vivono soltanto per le effemeridi della moda. È stupido, ridicolo e antifascista andare in sollucchero per le danze ombelicali di una mulatta o accorrere come babbei ad ogni americanata che ci venga da oltreoceano». Stando all’affermazione, potremmo dire che oggi tutti (ma proprio tutti) siamo antifascisti. Ma sono altri tempi, altri regimi, altri limiti.

Le parole contenute nell’editoriale di Carlo Ravasio descrivono bene quanto fosse complicato il rapporto del fascismo con la musica. Successoni dell’epoca come “Giovinezza” furono comunque circondati da una censura musicale che in quegli anni fu molto attiva. Il jazz venne esplicitamente definito “musica negroide”, ma non finisce qui; pur di non leggere sui giornali italici dei nomi internazionali, venivano sistematicamente tradotti persino i grandi della musica statunitense tanto acclamati. Louis Armstrong divenne l’improbabile Luigi Braccioforte e Benny Goodman si trasformò in un orrendo Beniamino Buonuomo.

Che ci crediate o no, la blasonata “Faccetta nera” fu censurata in un primo momento perché considerata un incoraggiamento al mescolamento fra razze. Proprio così, l’inno per eccellenza del regime di Mussolini, ancora oggi canticchiato (a sfottò) da qualcuno, riservava apprezzamenti forse eccessivi per la bella abissina. Ma, senza entrare nei dettagli, c’è più di qualche colono che apprezzò di buon grado una bella ragazzina nera.

Finito il controllo del Ministero della cultura fascista, iniziò quello della Rai. Due vittime eccellenti nei ruggenti anni Cinquanta: l’indimenticato Renato Carosone e l’iconico Domenico Modugno. Il primo, per la sua “La pansè”, fu ostacolato per quella frase, «Me la dai?» anche se faceva riferimento a una pianta (appunto la pansè) e non ad una parte del corpo femminile. Il secondo, nella canzone “Vecchio frac”, dovette sostituire il binomio «Ad un attimo d’amore/Che mai più ritornerà» con un più malinconico andante «Ad un abito da sposa/Primo ed ultimo suo amor». Ma per il Modugno nazionale è solo il primo passo verso la scomunica radiotelevisiva.

Nel 1957, l’artista, ormai iscritto al giovanissimo Partito Radicale – fattore non da poco – venne pizzicato per “Resta cu’mme” e per quel verso troppo hot: «Nun me ‘mporta d’o passato/Nun me ‘mporta ‘e chi t’avuto». Cose da Family Day. Modugno, molto più tardi, si rifece con gli interessi: nel 1976 pubblicò “L’anniversario”, un vero proprio canto contro il matrimonio, simbolo nazionalpopolare: «Il nostro anniversario non è sul calendario/Perché di matrimonio non si parla tra noi due/Io non ti giuro niente perché non c’è bisogno/Con un contratto non si lega un sogno». Domenico Modugno varcava confini inimmaginabili anni prima, ma lo scandalo era sempre dietro l’angolo.

L’irresistibile e amatissima Mina si è salvata dalla censura Rai? Ovviamente no. Icona indiscussa del panorama musicale italiano, simbolo immortale dell’italianità musicale nel mondo, nel 1975 la cantante dovette cambiare “L’importante è venire” con “L’importante è finire”. Un doppio senso troppo scomodo?

Ma ciò che molti dimenticano è il momento del suo allontanamento dai riflettori, con la sua ultima apparizione televisiva in Rai, il 23 agosto del 1978. Da anni “puntata” per il figlio avuto fuori dal matrimonio, arriva al varietà “Mille e una luce” con un retroscena condito di cialtroneria, ma è lo stile della grande artista che passerà: Mina allora venne orribilmente gestita dalla regia, la quale organizzò anche l’immagine video divisa in più monitor per evitare l’attenzione sul suo primo piano e sul suo atteggiamento. Ma cosa fece Mina di così spudorato prima di abbandonare i live? Decise all’ultimo di cantare come sigla finale il brano “Ancora ancora ancora”, scritta da Cristiano Malgioglio. Il brano si contraddistinse per un’esibizione provocante, i movimenti sinuosi e i suoni potenti di una Mina che salutava tutti, ma con classe. Poi, la scomparsa dalle scene.

Intanto altrove, nei due grandi centri culturali propulsivi, perlomeno quelli di massa, Inghilterra e Stati Uniti, la situazione era anni luce oltre le scelleratezze italiane in Rai. Servono pochi nomi e altrettanti riferimenti lirici: Elvis Presley ansima e balla senza limiti di gestualità – anche sessuale, ci mancherebbe – sul palco e in tv; Mick Jagger parlava senza freni di “mestruazioni”, di “scoparsi ragazze”, di “passare la notte insieme” e addirittura della “simpatia per il diavolo”; i Beatles urlavano di volerlo “fare in mezzo alla strada”; gli Who spaccavano tutto durante le loro esibizioni, in tv come sui grandi palchi. C’è altro? Sì.

Citare i Led Zeppelin è sufficiente senza aggiungere ulteriori dettagli, essendo loro sinonimo del rock più sensuale e sessuale che sia mai stato concepito e suonato. Jim Morrison e la sua poetica sfrenata, tipica di un personaggio sopra le righe ai concerti come nella vita privata, ha affascinato milioni di persone e continua ad ammaliare uomini e donne. La lista potrebbe essere molto più lunga, ma limitiamoci qui ai nomi più acclamati e certamente non censurati (esclusi arresti e critiche lecite a posteriori di stravaganti apparizioni).

Anche se questa seppur ampia rassegna ha raccolto storie molto indietro nel tempo fino a giungere all’Italia del “boom economico” (e oltre), dopo gli anni Sessanta e Settanta non è andata meglio. Potremmo dire che l’unico vero boom italiano è stato quello delle censure, mai rallentate in un Paese fondamentalmente conservatore, tradizionalista e cattolico. Ci sono i casi legati a Battisti, Ron, Vecchioni, Baglioni, De Gregori, Guccini, Dalla, De André, Gaber e i campioni indiscussi Elio e le storie tese, solo per citarne alcuni, tutti protagonisti di modifiche del testo o, più nettamente, di esclusioni dalle apparizioni televisive.

Solo quando alcune parolacce furono sostanzialmente sdoganate da tutti, nel linguaggio musicale, negli anni Novanta, arrivò qualche gentile concessione fino all’illusione dell’assenza di freni inibitori dello spettacolo. Forse il passaggio drastico a cui si è assistito recentemente è stato quello di “volgarizzarsi” (etimologia da parte) per essere giovani, come se la tenera età fosse sinonimo di ignoranza e povertà del lessico. La spudoratezza di una poesia, di una canzone, di un’opera figurativa non è mai volgare; bensì, banalmente, volgare è ciò che viene pensato per esserlo.


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