La pandemia della verità. Cos’è stato finora il 2020

 

Nell’era del distanziamento sociale, la pandemia ha rivelato i buchi neri della società globalizzata.


«Dai tempi del Congresso di Vienna, 1815, la civiltà occidentale non fu mai così vicina all’unità come nella settimana in cui venne pubblicato “Sgt. Pepper”. Per un breve momento, la frammentata coscienza del mondo occidentale si riaggregò, quantomeno nelle teste dei giovani».  
– Langdon Winner

Da quell’estate del 1967, in cui i Beatles pubblicarono il loro celeberrimo concept album “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, forse la speranza era quella che in futuro, i capolavori artistici sarebbero stati gli unici elementi di unione e condivisione che attraversano il tempo e lo spazio. Eppure, questi primi sei mesi del 2020 ci hanno raccontato una realtà diversa: prima il virus che scatena una pandemia tuttora fuori controllo, subito dopo una ventata di violente proteste nella più grande democrazia mondiale (gli Stati Uniti, la prima nazione per quanto riguarda le tristi statistiche della sopra citata pandemia) che minaccia di conseguenza la stabilità politica internazionale.

Ma andiamo per ordine. Siamo stati catapultati in quella che era prima una semplice paura, poi una realtà lontana ed infine una dura prova da fronteggiare, con la nostra mente costantemente bombardata da nozioni che difficilmente avremmo appreso senza il Covid-19.

L’espressione “ai tempi del coronavirus” è ormai d’uso quotidiano: “l’amore ai tempi del coronavirus”, “lo sport ai tempi del coronavirus”, “il sesso ai tempi del coronavirus”, “essere genitori ai tempi del coronavirus”, insomma: la vita ai tempi del coronavirus. Ciononostante, molteplici fattori portano a credere che in realtà a scandire il nostro tempo non sia stata la famigerata pandemia, bensì l’approccio con il quale la si è vissuta e la si sta ancora vivendo.

Tale approccio, figlio della contemporaneità che da oltre un decennio percorre a gran velocità la strada della condivisione – parola nobile ormai violentata dall‘uso dei social network – è venuto a scontrarsi con una situazione completamente inedita: se è vero infatti che tecnicamente la cosa più simile alla pandemia da Covid-19 che si sia vissuta in passato è stata l’epidemia di SARS del 2002-2003, non si può certo affermare che in quell’epoca le informazioni viaggiassero allo stesso frenetico ritmo di oggi. Peraltro, le due crisi sanitarie, pur avendo numerose similitudini tra cui un vano tentativo di insabbiamento da parte delle sempre “poco attente” autorità cinesi, non sono minimamente paragonabili in quanto a numeri.

Ecco allora che il mondo in larga parte globalizzato e iper-connesso di oggi si è riscoperto vulnerabile e inerme di fronte ad un tipo di minaccia vecchia ma sempre dannatamente attuale. Siamo venuti così a conoscenza di nuove parole (infodemia il neologismo più affascinante);  smartphone e computer, strumenti inseparabili di collegamento verso il mondo esterno, per qualche mese sono stati gli unici strumenti di condivisione per combattere nostalgia e solitudine (flash mob dai balconi esclusi).

Per la prima volta, quella assoluta forma di libertà “a portata di tweet” che caratterizza la nostra vita è stata rivolta verso un unico grande interesse: una pandemia. Il caos politico, le ripercussioni economiche e sociali, le statistiche, il sovraffollamento degli ospedali e molto altro: complici queste moderne dinamiche sociali, quasi ogni essere umano sulla faccia della Terra è stato ed è pienamente dentro ad un qualcosa di comune.

In questi mesi di fiumi di parole da parte di sedicenti esperti è stata interessante l’analisi dell’economista e politologo Edward Luttwak: «È il virus della verità: dove appare il virus, espone la verità. Nel caso della Cina ha esposto che c’è una dittatura comunista che sopprime la verità. In Iran ha esposto il fanatismo religioso. Nel caso dell’Italia ha esposto la scarsa capacità amministrativa». Possiamo dunque affermare che esso stia “esponendo le verità” del mondo in cui viviamo oggi? Probabilmente sì.

Le verità sono molteplici e di giorno in giorno mettono a nudo le fragilità sociali, politiche ed economiche del già complesso panorama globale, ad esempio un’Unione Europea non subito pronta a dare risposte esaustive alle esigenze di uno dei suoi Paesi cardine – l’Italia – ma che ha poi avuto l’occasione per tornare sui propri passi quando la minaccia è diventata per tutti.

Abbiamo visto le divisioni sociali e il disprezzo che nemmeno in questi frangenti così complessi hanno lasciato spazio alla comprensione: tutti prontissimi ad additare gli altri, potenziali untori e irrispettosi delle regole mentre la situazione economica va giù come, inevitabilmente, il PIL. E come non citare le innumerevoli contraddizioni in campo medico riguardanti il virus? Alzi la mano chi ci ha chiaramente capito qualcosa

Più di recente, abbiamo invece potuto constatare in maniera sorprendente che per reprimere il calderone della rabbia sociale che da secoli ribolle in una grandissima superpotenza come gli USA, ci vuole ben altro che una pandemia.

Il virus della verità ci ha tristemente portati a pensare che la società “globale” sia connessa solo virtualmente. Una società in cui un problema che ha luogo dall’altra parte del globo non ci riguarda, fin quando non ci tocca in prima persona. Che si disinteressa dell’amministrazione politica, a partire da quella delle comunità locali, ma che oggi dà ascolto alle dirette sui social e in Tv dei vari “governatori”. Una società dove, anche davanti ad una grave crisi sanitaria, succede di non rispettare o aggirare le regole, dove il fatto che i rischi sono degli anziani e delle persone con patologie pregresse un po’ ci rincuora.

Risuonano ancora vere le parole di Druce Aylward, capo della task force di esperti dell’OMS,il quale ha affermato tornando dalla Cina che «il mondo non è pronto a fronteggiare il coronavirus». Lo abbiamo tragicamente constatato, insieme al fatto che il nostro mondo, chiuso nei suoi egoismi e nelle sue incertezze, non è pronto neppure per molte altre cose. Probabilmente, non sarà pronto alle prossime grandi sfide che lo attenderanno, perché la natura che il genere umano ha ridotto ad un misero meccanismo da business impiega meno del previsto a far capire chi comanda, e il Coronavirus è solo l’ultima delle sue manifestazioni che di decennio in decennio si fanno sempre più drammaticamente ricorrenti.

E mentre le proteste infiammano gli Stati Uniti, si può certo dire che questo 2020 sia un anno “di fuoco”. Chiedete agli australiani, che di fuoco ne hanno visto abbastanza e per ben altri motivi.

Giuseppe Terranova


 

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