Il coronavirus come la peste manzoniana: la paura che diventa «furore»

 

Sembra un’esagerazione paragonare la peste seicentesca raccontata da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi all’emergenza coronavirus che sta letteralmente attanagliando il mondo da due mesi. Ma non sono né la portata degli eventi né tanto meno i provvedimenti sanitari a essere affiancabili. La paura, l’irrazionalità che governa l’uomo nel panico è sempre la stessa a distanza di secoli, non si può affermare il contrario.

L’argomento manzoniano è tornato recentemente al centro dell’attenzione in Italia – tanto da far aumentare le vendite dell’opera milanese – per un affascinante accostamento compiuto da Domenico Squillace, il preside del liceo scientifico “Alessandro Volta” di Milano. Accompagnati dalle suggestioni che vivono al di sotto delle fondamenta della scuola (in pieno quartiere Lazzaretto di Milano) i suoi studenti, in un momento in cui le scuole sono forzatamente chiuse a causa dell’emergenza coronavirus, hanno potuto leggere la lettera del preside. Il messaggio che lancia Squillace parte dalla peste raccontata da Manzoni in tre dolorosi capitoli.

Il messaggio ai ragazzi esordisce così: «La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia». Si tratta delle parole contenute all’inizio del capitolo 31 dei Promessi Sposi, nel quale si descrive la terribile epidemia di peste del 1630.

Squillace prosegue nella sua “lettera aperta” – visto e considerato che a trovarla interessante non sono solo gli studenti – scrivendo: «Si tratta di un testo illuminante e di straordinaria modernità che vi consiglio di leggere con attenzione, specie in questi giorni così confusi. Dentro quelle pagine c’è già tutto, la certezza della pericolosità degli stranieri, lo scontro violento tra le autorità, la ricerca spasmodica del cosiddetto paziente zero, il disprezzo per gli esperti, la caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, la razzia dei beni di prima necessità, l’emergenza sanitaria».

Il professor Squillace mette in guardia dall’impeto della paura, sempre pronto a coglierci e a trasformarci in “cacciatori di nemici”. L’atmosfera in quei passi del romanzo di Manzoni è d’altronde quella che stiamo avvertendo da settimane: panico, terrore, diffidenza, raccontate oltre 150 anni fa con parole che «sembrano sbucate fuori dalle pagine di un giornale di oggi». Suggerimenti sulle mascherine a parte – «lasciatele ai malati» dice Squillace – il monito più importante che proviene dal riferimento manzoniano è quello sulla vita di tutti i giorni.

Leggere quelle pagine ottocentesche (narranti un episodio seicentesco) riporta inevitabilmente al presente: «l’avvelenamento della vita sociale, dei rapporti umani, l’imbarbarimento del vivere civile» sono sempre quelli. Se sappiamo che l’istinto di risposta alla minaccia, ancor più se proveniente da un nemico invisibile, è quello di vedere nemici ovunque, non riusciamo a riconoscere neanche gli avvelenatori di pozzi, coloro che, banalmente, marciano sull’emergenza. E se non li riconosciamo in un contesto “rilassato”, figuriamoci nella psicosi.

Si leggono nella prima parte del capitolo 32 – nei momenti più tragici della peste a Milano – le reazioni prossime al panico totale. Si vociferava di “misteriose unzioni”, strane sostanze che si sospettavano essere opera di untori:

«S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire (…) un uomo d’ingegno le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi».

Come le bufale su internet, c’erano fantasiose teorie sull’efficacia di quelle strane misture – racconta Manzoni – spalmate sulle porte che convincevano i milanesi: «Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito».

Il pericolo è sanitario, ma a quel punto è anche una bomba sociale: «Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore». Citando lo storico e presbitero Giuseppe Ripamonti, Manzoni riporta anche un episodio agghiacciante di quella follia ormai regnante fra i cittadini milanesi:

«un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. – Quel vecchio unge le panche! – gridarono a una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com’erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. “Io lo vidi mentre lo strascinavan così, – dice il Ripamonti: – e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento”».

Ecco perché la lettura di Manzoni non è solo un passatempo per “rileggersi” ma anche un vero e proprio monito affinché la psicosi non si “divori” totalmente i nostri cervelli.

Ma mettendo da parte la memoria adolescenziale, Manzoni non è solo l’eccellente narratore di uno scenario tetro e “apocalittico”. Ciò che merita attenzione è anche il saggio storico Storia della Colonna Infame, considerato un’appendice al romanzo, dove l’autore milanese non si limita a “raccontare una storiella”, ma costruisce un’ampia critica sociale e psicologica intrecciata a fatti e personaggi storici. Il saggio sulla Colonna Infame non è altro che una critica a un processo ingiusto, ambientato proprio durante quella folle “caccia agli untori”, la caccia al «paziente zero» per le strade di una Milano nel panico.

Lapide della “Colonna infame” presso la Corte ducale” del Castello sforzesco a Milano

Cos’è la Colonna Infame? È letteralmente una “colonna” eretta sulle macerie della casa di Gian Giacomo Mora, accusato con Guglielmo Piazza nel 1630 di essere gli untori della peste nera di Milano. La colonna affermava in breve che sulle macerie di quella casa non si doveva più erigere una nuova casa.

Manzoni racconta che quella caccia alle streghe partì da Caterina Rosa, una popolana che accusò Mora e Piazza, i quali vennero torturati per un mese affrontando un processo assolutamente privo di qualunque buon senso o scrupolo. Ai due condannati fu mozzata la mano destra e furono spezzate le ossa a suon di bastonate. Per essere sottoposti alla “tortura della ruota”, i due vennero esposti al pubblico per sei ore, agonizzanti, dopo le quali gli fu tagliata la gola e i loro corpi dati alle fiamme.

Un processo – stavolta mediatico, sui social – nel caso del coronavirus, altrettanto ingiusto e orrendo è avvenuto a quattro secoli di distanza dall’originale Colonna Infame (divenuta ormai un modo di dire per indicare un “marchio di disprezzo”). La prima parte di questo 2020 è stato scandito dapprima da un diffuso razzismo verso i cinesi, le loro attività e la loro cucina. Passata la patata bollente dell’emergenza al Lombardo-Veneto, la psicosi si è tramutata nella paura del settentrionale – sul piano nazionale – e dell’italiano, sulla scala globale. L’Italia, divenuta fra i primissimi paesi al mondo per numero di casi di contagio, ha ricevuto “(aero)porti chiusi” da oltre una dozzina di paesi nel mondo.

L’ironia del fato, a volte, fa davvero male. Nel saggio di Manzoni si leggeva una condanna e una condotta che non ci siamo mai tolti di dosso: «il sospetto e l’esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni».


 

 

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