Il diritto di amare in Tunisia. Negazione e lotte per la libertà

Dibattiti, musica, spettacoli e colori. Corpi danzanti e liberi l’anno scorso festeggiavano il diritto all’amore all’Istituto Francese di Tunisi. Un giorno in cui la comunità LGBTQ++ della capitale tunisina ha potuto esprimere e rivendicare i propri diritti in uno spazio comune, tuttavia chiuso, protetto e distante dagli occhi e dalla “sensibilità” di chi quei diritti vuole negarli.

In Tunisia chi è sorpreso in atti omosessuali è perseguibile dalla legge e rischia fino a tre anni di reclusione secondo quanto stabilito dall’articolo 230 del codice penale. Un testo che però insieme all’articolo 226, relativo all’offesa alla morale, si pone in antitesi con i diritti sanciti dalla nuova Costituzione del 2014 che invece prevede protezione contro la tortura, le discriminazioni, la privacy, gli arresti e la detenzione arbitraria. Tuttavia, come ha riportato Human Rights Watch nel 2018, nel Paese nordafricano restano tutt’oggi frequenti gravi forme di violenza omofoba, sia sul piano giuridico che su quello sociale.

Lo sa bene Ahmed (nome di fantasia), diciassettenne tunisino che nell’agosto del 2017 si è visto piombare in casa le forze dell’ordine per requisire il suo cellulare e interrogarlo. Senza fornirgli alcuna spiegazione, il giorno dopo la polizia ha condotto Ahmed in ospedale per sottoporlo a dei test medici. Si tratta dell’ispezione anale, un esame il cui scopo è ottenere le prove di “condotte omosessuali” che si basa sulla valutazione della tonicità dello sfintere anale. Pur essendo del tutto privo di validità scientifica, oltre che un vero e proprio abuso, il test anale è estremamente diffuso in molti paesi che criminalizzano l’omosessualità.

Ahmed è stato costretto a trascorrere due mesi in un centro di detenzione dove gli è stata somministrata una terapia di conversione per “correggere” il suo orientamento sessuale. Ben più nota è la vicenda di Nidhal, arbitro del massimo campionato calcistico tunisino, il quale oltre alla condanna a tre mesi di carcere, ha dovuto fare i conti con i pregiudizi sociali che hanno stravolto la sua vita e che l’hanno portato alla perdita del lavoro e delle amicizie.

Nonostante questi episodi siano frequenti, la società civile tunisina è determinata a lottare per la depenalizzazione dell’omosessualità e molte organizzazioni per la tutela dei diritti umani si impegnano incessantemente per garantire in Tunisia una crescita democratica conforme al diritto internazionale e alla Costituzione tunisina. 

Una delle strategie più importanti messe in campo per i diritti LGBTQIA è l’apertura al dialogo. Di questo si fa promotore Shams, un’organizzazione ormai nota nel Paese e più volte presa di mira perché non conforme “ai principi della società musulmana”.

Proprio recentemente Shams è finita al centro del dibattito annunciando in occasione del primo giorno di ramadan una notizia clamorosa riguardante il riconoscimento di un matrimonio tra persone dello stesso sesso, una novità assoluta nel Paese e in tutto il mondo arabo. La notizia è stata riportata da moltissimi media internazionali destando però non poche perplessità nel Paese.

Come riportato da altre agenzie di stampa si sarebbe piuttosto trattato di un errore commesso da alcuni impiegati comunali. Errore di cui Shams era pienamente consapevole – sostengono invece gli esponenti di Mawjoudin We Exist – che accusano Shams di non preoccupparsi della sicurezza della comunità LGBTQIA. Tale disinformazione, ha avuto come unica conseguenza quella di far aumentare sentimenti omofobici, particolarmente violenti durante la quarantena di queste settimane e rendendo il lavoro di sostegno e protezione portato avanti da Mawjoudin We Exist ancora più difficile a causa della pandemia che ha colpito anche la Tunisia.

Molti giovani attivisti e le organizzazioni che si battono per i diritti nel paese nordafricano, sembrano essere comunque sulla buona strada per la depenalizzazione dell’omosessualità. La Tunisia è innegabilmente un grande esempio di “consapevolezza sociale” se si pensa che sono passati solo nove anni dall’inizio del processo di democratizzazione. L’ottimismo con cui va guardata la Tunisia trova conferma nei grandi passi in avanti che l’intero Continente africano sta facendo su questo tema.

Come riporta anche Amnesty International sono diversi i Paesi africani in cui l’omosessualità non rappresenta più in crimine, tra questi ricordiamo: Angola, Benin, Botswana, Burkina Faso, Capo Verde, Repubblica Centrafricana, Congo-Brazzaville, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Gibuti, Guinea Equatoriale, Gabon, Guinea-Bissau, Lesotho, Madagascar, Mali, Mozambico, Niger, Ruanda, Sao Tome and Principe, Seychelles, Sudafrica.


Foto in copertina Grassroots Global Justice Alliance

 

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