Bangladesh: il Coronavirus colpisce l’industria della moda

 

«La nostra situazione è apocalittica. Le cancellazioni e le sospensioni degli ordini dall’Occidente ci stanno portando al fallimento, abbiamo un ammasso di sovrapproduzione e debiti sulle materie prime» dichiara Rubana Huq, presidente dell’associazione dei produttori ed esportatori di abbigliamento del Bangladesh, al New York Times.

In Bangladesh, secondo paese esportatore di abbigliamento al mondo dopo la Cina, il settore tessile costituisce un aspetto fondamentale dell’economia. L’arte del tessuto è antichissima e connota la tradizione bengalese: già nel XVI fino al XVIII secolo il Bangladesh era un punto nodale nella produzione e nel commercio mondiali di mussola e seta.

Le esportazioni di prodotti tessili e capi di abbigliamento sono la principale fonte di entrate in valuta estera del paese asiatico.

Basta tenere in considerazione che già nel 2002 le esportazioni di prodotti tessili hanno rappresentato il 77% del totale delle esportazioni di merci del Bangladesh. Nel 1972 il PIL del Bangladesh si aggirava approssimativamente intorno ai 6.29 miliardi di dollari ed ha raggiunto 173,82 miliardi di dollari nel 2014: $ 31.2 miliardi di dollari del PIL del paese sono generati proprio dalle esportazioni, 82% delle quali di capi ready-made. Nel 2019 i capi confezionati hanno rappresentato l’84% delle esportazioni per una cifra di circa 37 miliardi di euro.

Da quando è iniziata la pandemia, in Bangladesh sono stati cancellati e sospesi ordini per oltre 2,6 miliardi di euro. Ciò ha avuto conseguenze disastrose sulla vita di ben due milioni di lavoratori. Infatti, più di un milione di impiegati del settore dell’abbigliamento è già stato licenziato o messo in cassa integrazione. Sharif Zahar, direttore del gruppo Ananta che gestisce sette fabbriche e ha circa 26mila dipendenti, ha accusato i “marchi stranieri di comportarsi in modo irresponsabile“: questi sono rei di aver cancellato ordini di merci già confezionate, ritardato i pagamenti e richiesto sconti sui prodotti già spediti. Una ricerca condotta dall’Università della Pennsylvania ha evidenziato che la maggior parte delle aziende occidentali si sono rifiutate di contribuire al pagamento degli stipendi dei lavoratori bengalesi. Per fronteggiare questa gravissima situazione il governo del Bangladesh ha stanziato un fondo di circa 540 milioni di euro a sostegno delle industrie votate all’esportazione affinché paghino direttamente i lavoratori.

Intanto i proprietari delle fabbriche di tessuti e vestiti rischiano la bancarotta e restano in ballo gli stipendi di milioni di dipendenti bengalesi. Tanti opifici sono rimasti aperti nonostante le restrizioni per il contrasto al Covid-19 adottate da vari paesi asiatici, non solo dal Bangladesh ma anche dall’India e dalla Cambogia. Se alcune fabbriche hanno introdotto norme volte a garantire la distanza di sicurezza tra il personale, tantissime altre operano come al solito: lavoratori ammassati in stanze poco ventilate e con un solo bagno in comune. Il rischio di contagio è quindi altissimo.

Che siano numerose le multinazionali occidentali che utilizzano mano d’opera in Bangladesh è cosa nota, dal momento che è una delle nazioni più economiche al mondo in termini di salari: 30 euro al mese contro i 150 o 200 della Cina. Quattro giorni sono sufficienti per permettere all’amministratore delegato di uno dei cinque principali marchi tessili mondiali di guadagnare ciò che un’operaia del Bangladesh guadagnerà nella sua vita. Numerosi sono stati gli incidenti che hanno coinvolto gli impiegati di opifici tessili bengalesi. Basti ricordare che, nell’aprile 2013, almeno 1.135 lavoratori tessili sono morti nel crollo della loro fabbrica. Vi erano stati già negli anni precedenti, dal 2005 al 2010, varie sciagure dalle conseguenze troppo spesso mortali per gli operai. La causa? Le condizioni fatiscenti di molti stabilimenti.

Se è giusto considerare che buona parte dei brand occidentali è in gravi difficoltà economiche a causa del momento di enorme crisi determinato dalla diffusione del Covid-19 è altresì doveroso chiedersi come facciano i CEO dei marchi europei e americani a dimenticarsi completamente, proprio nel momento di maggior bisogno, di quei paesi in cui producono i loro abiti e che hanno scelto principalmente per il basso costo della mano d’opera nonché di tutte le migliaia di lavoratori il cui sostentamento dipende da loro.


Annarita Caramico