Il disaccordo del secolo
Il 28 gennaio scorso il Presidente Donald Trump ha presentato presso la Casa Bianca i dettagli politico-diplomatici di quello che è stato già definito il “deal of the century” (l’accordo del secolo). Parliamo del piano messo a punto dall’attuale amministrazione USA, per favorire un definitivo processo di pace per il conflitto israelo-palestinese, esposto alla presenza del Premier israeliano Benjamin Netanyahu e degli ambasciatori di Emirati Arabi Uniti, Oman e Bahrein. Assenti, invece, i delegati palestinesi.
Il tycoon, durante l’illustrazione delle 180 pagine che compongono la proposta, ha tenuto a precisare che questo accordo «sarà vantaggioso sia per gli israeliani che per i palestinesi». Ma è davvero così? Hamas -il partito-milizia che controlla la Striscia di Gaza- e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) hanno immediatamente rifiutato l’accordo. Per conoscere i motivi del rifiuto palestinese, cerchiamo di capire brevemente di quali proposte si compone questo pretenzioso piano di pace che punta a risolvere uno dei conflitti più lunghi e complicati della storia contemporanea.
È molto importante partire da una considerazione: il piano non può essere considerato un accordo, dato che si tratta di una iniziativa unilaterale da parte degli Stati Uniti formulata con una sola delle parti in conflitto, ovvero Israele. L’elaborato è stato fortemente criticato dalla controparte palestinese a causa del fatto che sembri ispirarsi molto a linee di politica interna statunitense ed israeliana, piuttosto che avere una visione lungimirante sui delicati equilibri del Medio Oriente.
Non dobbiamo nemmeno sottovalutare le prossime ed ennesime elezioni politiche in Israele, alle quali è candidato “l’amico” trumpiano Benjamin Netanyahu, impaniato nel processo per corruzione che lo vede protagonista. Il testo potrebbe fungere da assist elettorale USA alla candidatura di “Bibi”.
L’accordo prevede la normalizzazione della presenza dei settlements israeliani in territorio palestinese. Gli insediamenti in Cisgiordania sono stati più volte dichiarati illegittimi ed illegali secondo i principi di diritto internazionale. Stando alle parole del presidente americano, «il piano prevede che nessun israeliano o palestinese abbandoni la propria casa», accettando di fatto la presenza dello Stato ebraico all’interno della green line, la linea di confine stabilita dalle Nazioni Unite che divide Israele dal West Bank, ovvero il pezzo di territorio che, insieme alla Striscia di Gaza, oggi viene riconosciuto da una parte della comunità internazionale come Stato di Palestina.
Così facendo il già poco omogeneo Stato palestinese rischierebbe di ritrovarsi limitato ad un insieme di piccole enclave collegate tra loro da strutture ed infrastrutture controllate da Israele; come spiegato dalla studiosa dell’Università di Napoli l’Orientale, Olga Solombrino, all’interno del suo libro “Arcipelago Palestinese”.
Per quanto riguarda invece il problema concernente la discontinuità territoriale tra West Bank e Gaza, il piano prevede la costruzione di un tunnel sotterraneo che dovrà attraversare i territori di Israele. Questo sistema riporta alla memoria i bantustan utilizzati dal Governo del Sudafrica durante il regime di apartheid.
Dal testo si evince che Israele manterrà la sovranità sulle acque territoriali, mantenendo dunque il controllo de facto sul mare che bagna la Striscia di Gaza; ed anche sullo spazio aereo, compreso quello al di sopra del territorio della Cisgiordania. Quest’ultima scelta è stata giustificata dichiarando che senza questa misura, Israele non avrebbe il tempo materiale per potersi difendere da un possibile attacco aereo.
Quello che a tutti gli effetti è il punto più sbilanciato e controverso del piano è il riconoscimento di Gerusalemme come «capitale unica ed indivisibile dello Stato di Israele». Ai palestinesi rimarrebbe soltanto Gerusalemme Est, ovvero una piccolissima parte della Città Santa, al di fuori delle mura storiche. Opzione imponderabile per i palestinesi e per tutto il mondo arabo-islamico. Ricordiamo che la città è punto di incontro e convivenza di musulmani, ebrei, cattolici e cristiani ortodossi; e che il terzo luogo più sacro dell’islam – la moschea di Al-Aqsa e la Cupola della Roccia – si trova nella città vecchia, all’interno della Spianata delle Moschee, proprio adiacente al Muro Occidentale dove le persone di fede ebraica si ritrovano per pregare.
Aprire un libero passaggio ad ebrei e cristiani in questo luogo sacro potrebbe rivelarsi un passo a dir poco azzardato. Il 28 settembre del 2000 l’allora capo dell’opposizione israeliana Ariel Sharon, salì sulla spianata accompagnato da una scorta armata per rivendicare la piena sovranità israeliana sul luogo. Da quel fatto ebbe poi inizio la Seconda Intifada.
Che ne sarà invece dei rifugiati palestinesi all’estero? La risoluzione 194 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ratificata nel 1948, ne sancisce il ritorno nei propri territori di origine che oggi fanno parte di Israele. Ad oggi, per questo motivo, quasi la metà dei profughi palestinesi risulta apolide. Il piano prevede tre opzioni. La prima riguarda l’assorbimento dei rifugiati all’interno del territorio di quello che sarà il nuovo Stato palestinese; la seconda è che acquisiscano la cittadinanza dei paesi ospitanti; la terza opzione si riferisce ad un trasferimento di 5 mila profughi annui per dieci anni, da parte dei Paesi dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC).
Il 1° febbraio scorso il Presidente dell’ANP Abu Mazen, intervenuto alla riunione straordinaria convocata dalla Lega Araba al Cairo, ha annunciato «la rottura di tutte le relazioni della Palestina con Israele e con gli Stati Uniti», proprio in seguito alla presentazione del piano proposto da Trump e dalla sua amministrazione. Per il leader palestinese è inaccettabile la “svendita” di Gerusalemme ad Israele, e la presenza degli USA come unici mediatori dei negoziati. “Israele non è solo la patria degli ebrei, ma anche dei musulmani e dei cristiani” ha affermato Abu Mazen.
Il Piano, per come è stato concepito e delineato, è evidentemente sbilanciato a favore di Israele e dei suoi interessi; mentre le richieste palestinesi vengono sostanzialmente ignorate. Un “accordo” che rischia di destabilizzare ancora di più le sorti non solo del conflitto israelo-palestinese, ma di tutto il Medio Oriente.
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