Sicilia Si Cunta

Combattere la mafia è possibile: è questione di metodo e di cultura

Si potrebbe pensare che a distanza di trent’anni dal tragico assassinio per mano della mafia, le idee dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino possano dirsi completamente superate. In realtà, esaminando le caratteristiche del nostro tempo, ci si accorge immediatamente di quanto quegli ideali non solo siano ancora presenti e vibranti in ampie fasce di società civile ma, soprattutto, quanto siano ancora necessari.

Giovanni Falcone, un uomo dotato di uno straordinario spirito di servizio verso lo Stato e le Istituzioni, dedicò la sua vita intera alla lotta contro la mafia. Fu però spesso osteggiato e screditato dai suoi colleghi, quegli stessi uomini che, solo dopo la sua morte, cominciarono ad acclamarlo e ad esaltarne la figura. In effetti, prima che fosse la mafia ad ucciderlo, il giudice fu completamente abbandonato dallo Stato.

In un’epoca in cui le conoscenze scientifiche intorno al fenomeno mafioso scarseggiavano ed anzi si giungeva, addirittura, a negarne la stessa esistenza, Falcone fu uno dei primi ad identificare Cosa Nostra in un’organizzazione parallela allo Stato, verticistica e straordinariamente unitaria.

La grande professionalità e la sorprendente competenza condussero Falcone a teorizzare e, successivamente, ad applicare nel contrasto alla mafia un nuovissimo metodo definito da molti «rivoluzionario». Preferendo, rispetto al passato, un approccio di tipo globale alla lotta alla criminalità organizzata, egli riuscì a porre fine alle tante assoluzioni per insufficienza di prove che caratterizzavano i processi di mafia nella Sicilia degli anni Settanta e Ottanta.

Il processo Spatola fornì a Falcone l’occasione per entrare nel vivo delle dinamiche mafiose e, analizzandole, egli comprese che la mafia andava paragonata ad un enorme mosaico. Si trattava di un mondo smisurato ed inesplorato dove a prima vista tutto sembrava scollegato ma di cui, invece, occorreva «semplicemente» riunificare i tasselli.

Percependo la potenza economica della mafia, nonché, la sua capacità di infiltrarsi anche in sistemi giuridici molto distanti da quello italiano, il giudice palermitano decise di colpirla esattamente in quelli che erano i suoi punti vitali: i traffici internazionali di armi e droga e i conseguenti flussi di denaro e capitali.

Visto che i traffici mafiosi erano in grado di scavalcare gli oceani si comprese che indagare solo a Palermo (che comunque continuava a rappresentare la  base operativa di Cosa Nostra) non era più sufficiente.

Il «metodo Falcone», oltre a prevedere l’elevazione del livello professionale dei magistrati e degli ufficiali di polizia giudiziaria e il tempestivo e completo scambio di notizie e di informazioni tra gli organi inquirenti, proponeva un ulteriore aspetto fondamentale: la possibilità di indagini bancarie e societarie per il rintraccio e la confisca dei capitali di origine illecita.

Fu così che gli accertamenti bancari divennero il fulcro della nuova frontiera istruttoria e Falcone in persona esaminò migliaia di assegni bancari che servirono per avere la prova dei contatti tra gli imputati. Il tutto veniva registrato in quaderni e agende per avere la possibilità di ricercare le connessioni tra una persona e l’altra.

Grande intuizione del giudice Falcone fu, inoltre, quella di insistere sullo sviluppo di forme di collaborazione nazionale e internazionale sia a livello investigativo sia giudiziario. Egli era fortemente consapevole della dimensione transnazionale che Cosa Nostra andava assumendo e ciò rendeva, a suo parere, assolutamente urgente avviare una più stretta cooperazione tra gli Stati attraverso un’armonizzazione delle rispettive legislazioni nazionali. Proprio in quegli anni si aprì, infatti, una feconda collaborazione con gli organi inquirenti di altri paesi e in particolar modo con quelli di Stati Uniti e Canada.

Un caso emblematico fu quello della famosa indagine «Pizza Connection» che nel 1987, in seguito all’accertamento dei traffici di cocaina tra l’Italia e gli Usa e di grandi quantità di denaro depositate in Svizzera, condusse all’arresto di 32 persone e alla condanna a 45 anni di carcere del boss Gaetano Badalamenti. La «Pizza connection» fu poi inserita nel maxiprocesso dopo il quale, nonostante i brillanti risultati raggiunti attraverso il «metodo Falcone» e la dimostrazione dell’effettiva unitarietà di Cosa Nostra, iniziò la cosiddetta «Stagione dei veleni» e tutto il lavoro svolto fino a quel momento fu colpevolmente interrotto.

Qualche tempo prima della tragica morte, nella veste di capo della delegazione italiana in occasione della prima riunione della Commissione sulla prevenzione della criminalità e per la giustizia penale svoltasi nel 1992, il giudice Falcone prospettava già l’idea di una conferenza internazionale imperniata su un approccio di tipo multilaterale nel contrasto alla criminalità organizzata.

Nel 1994, in uno scenario internazionale in qualche modo favorevole ma non del tutto consolidato, le Nazioni Unite riuscirono ad organizzare (nuovamente su forte impulso italiano) la World Ministerial Conference sul crimine organizzato transnazionale, il primo passo verso il processo negoziale che avrebbe condotto alla Convenzione di Palermo. Per la prima volta, all’interno di documenti ONU, si affacciava la possibilità di elaborare uno strumento giuridico mondiale contro il crimine organizzato transnazionale.

Coerentemente con quanto auspicato da Falcone, la Convenzione di Palermo predispone un piano globale anticrimine perseguendo la prospettiva della cooperazione sia in materia di confisca sia in ambito investigativo e giudiziario. Malgrado gli sforzi compromissori raggiunti nella assise palermitana, e gli impegni assunti dagli Stati in relazione alla necessità di adattare la legislazione interna o di introdurre quanto richiesto dai Testi normativi, le potenzialità di tale strumento rimangono ancora largamente inattuate.

In particolare, ciò che sembra maggiormente limitare la cooperazione è la mancata previsione di un reato di associazione per delinquere di tipo mafioso sia negli ordinamenti giuridici degli Stati parte sia in quello dell’Unione Europea. La non previsione del «reato di mafia» all’estero, rende inoltre l’estradizione di un criminale mafioso particolarmente complicata, in quanto, in base al principio della doppia incriminazione, nessuno può essere estradato per un reato non previsto nel paese dove ha trovato rifugio.

Sono trascorsi molti anni e l’importanza di quel metodo, elaborato con tanta precisione e dedizione, risulta essere ancora fondamentale nella lotta al crimine organizzato. Le infiltrazioni criminali nel tessuto economico e sociale si presentano, oggi, ancor più pervasive e minacciose dato l’ampliarsi delle famose «zone grigie», il moltiplicarsi di situazioni di contiguità tra potere pubblico e affari criminali e i continui sviluppi provocati dai processi di globalizzazione economica e finanziaria.

«Seguire il denaro»  (Follow the money) continua a rappresentare il principale metodo da seguire quando si intende annientare associazioni criminali, come quelle mafiose, il cui unico obiettivo è quello dell’accumulazione di ricchezza.

Di Valeria Maschi


Redazione

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