Corte dei Conti Europea, bocciatura per l’Italia

 
 

La Corte dei Conti europea, nella Relazione speciale di settembre 2020, fa il punto sul raggiungimento degli obiettivi definiti nella strategia “Europa 2020”.


Secondo il parere della Corte l’Italia ha fallito nella lotta all’esclusione sociale e alla povertà e non ha investito sulla ricerca e sulle strategie di sviluppo. Una critica dura che parte dalla constatazione che il nostro Paese ha attuato pienamente solo un quarto delle raccomandazioni suggerite dalla Commissione, mentre per un terzo di esse i progressi sono stati pochi o nulli. Le raccomandazioni rimaste inosservate, alle quali si riferisce la Corte, sono state rese in seno al semestre europeo, importante ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio, nell’ambito dell’Unione.

Occorre allora interrogarsi sulle possibili ragioni che hanno contribuito a lasciare indietro l’Italia nel raggiungimento di tali obiettivi e sulle conseguenti implicazioni sul piano economico-sociale del nostro Paese.

Una prima causa è sicuramente rintracciabile nella discontinuità politica durante il periodo 2011-2020. Com’è noto, infatti, in meno di dieci anni in Italia si sono susseguiti più di sei governi: Berlusconi (maggio 2008 – novembre 2011), Monti (novembre 2011 – aprile 2013), Letta (aprile 2013 – febbraio 2014), Renzi (febbraio 2014 – dicembre 2016) , Gentiloni (dicembre 2016 – giugno 2018), Conte (giugno 2018 – settembre 2019), Conte (settembre 2019 – ad oggi). 

L’avvicendarsi di programmi e visioni politiche differenti hanno sicuramente prodotto una frammentazione anche nelle strategie per il raggiungimento degli obiettivi previsti: in un Paese sempre in campagna elettorale si tende normalmente a far prevalere gli interessi a breve termine su quelli a lunga gittata.

Quanto appena detto è strettamente connesso alle incongruenze rilevabili in sede di programmazione: dalle analisi dei revisori di Lussemburgo risulta, infatti, che l’Italia non ha pianificato correttamente priorità e risorse durante il periodo 2011 – 2020. Nel programma nazionale di riforma (PNR) del 2016, ad esempio, non si fa alcun riferimento agli obiettivi relativi alla crescita e al rilancio degli investimenti e non si descrivono le strategie relative all’occupazione, all’equilibrio tra flessibilità del mercato del lavoro e garanzie di sicurezza sociale (flessicurezza) e all’agenda digitale, nonostante le pressanti raccomandazioni in tal senso.

Eppure in Italia, proprio in vista degli obiettivi di “Europa 2020”, furono portati avanti importanti cambiamenti normativi: la riforma Costituzionale n. 1 del 2012, sul principio di equilibrio di bilancio, ne è un importante esempio. All’indomani della grande crisi economica, scoppiata nel 2008, per l’Unione Europea si rese necessario rimodulare i piani economici esistenti allo scopo di evitare il default degli Stati membri con alti debiti pubblici:  proprio in questo periodo si definirono gli obiettivi europei per il decennio e si combinarono i più importanti accordi sulle politiche economiche, fiscali e di bilancio dell’UE.

Per il 2020 la strategia economica prevedeva una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva affinché gli Stati raggiungessero cinque grandi obiettivi: 1. ridurre i gas serra e aumentare le energie sostenibili; 2. ridurre l’abbandono scolastico; 3. investire almeno il 3% del PIL in ricerca e sviluppo; 4. portare il tasso di occupazione giovanile ad almeno il 75%; 5. ridurre su tutto il territorio la povertà e l’esclusione sociale. Tutti questi risultati dovevano essere raggiunti attraverso una politica fiscale e di bilancio ordinata che permettesse la sostenibilità del debito pubblico. L’inserimento di norme costituzionali che salvaguardassero il buon funzionamento delle finanze ed evitassero gli indebitamenti eccessivi da parte degli Stati, venne avvertita anche in Italia come un’operazione di vitale importanza.

Per una migliore analisi è utile ricordare che il “principio di equilibrio di bilancio”, costituzionalizzato all’art. 81, è un’espressione elastica e non vieta l’indebitamento: si differenzia dal “principio di pareggio” in quanto l’equilibrio permette la sostenibilità del debito alla luce delle fasi avverse e favorevoli del ciclo economico, con il fine di ridurre il rapporto Debito/PIL. Il termine “pareggio”, invece, è una condizione contabile molto più rigida che impone l’uguaglianza tra entrate e uscite: in quest’ultimo caso, a fronte di qualsiasi spesa, non è possibile far ricorso all’indebitamento.

Tuttavia la legge Costituzionale n. 1/2012 non è soltanto un’operazione normativa formale per il riordino delle finanze al fine di rendere possibile la sostenibilità del debito: il principio di equilibrio di bilancio rappresenta un passo fondamentale a completamento del percorso di riconoscimento dei diritti sociali e intergenerazionali. Se infatti leggiamo l’articolo 81, nella sua nuova formulazione, in combinato disposto con i primi articoli della Costituzione e, in particolare, con l’art. 3 che riconosce l’uguaglianza sostanziale dei cittadini, ci renderemo sicuramente conto dell’importanza di tale riforma: da quanto disposto si evince che il legislatore ha voluto realizzare un patto sociale tra differenti generazioni. L’uguaglianza riconosciuta dalla Costituzione ai cittadini non si pone solo come valore del tempo presente, ma attraverso l’equilibrio di bilancio si concretizza un vero e proprio asse sociale dei diritti tra differenti generazioni.

La riforma del 2012 sarebbe dovuta essere il primo step per il raggiungimento di quegli obiettivi di “Europa 2020”: il limite all’indebitamento, infatti, rimette in moto tutti i meccanismi di razionalizzazione delle risorse verso la realizzazione di quei principi della realtà democratica di cui fanno certamente parte l’inclusione sociale e l’occupazione. 

Alla luce di quanto detto sopra però, il rinnovato quadro normativo non si è tradotto in un cambiamento di rotta della politica economica: il principio di equilibrio di bilancio non è stato mai letto come punto di partenza per un migliore utilizzo delle risorse, ma come mera riforma sulla scia delle raccomandazioni di austerity all’interno dell’Unione. Questa lettura superficiale della ratio della riforma ha poi accompagnato il percorso politico di tutti governi che si sono avvicendati nel decennio in esame.

Data quest’analisi, si può ritenere che la sostenibilità del debito dipende, oggi più che mai, dal cambiamento di rotta della politica economica soprattutto data la preoccupante situazione post-covid e l’impatto dell’indebitamento sui diritti sociali intergenerazionali: pertanto per una ripartenza all’insegna dell’equità intergenerazionale  è necessario che il principio di equilibrio di bilancio venga letto, non più come norma sul riordino delle finanze, ma come valore solidaristico a favore di una nuova concezione circolare dei diritti e dei doveri che coinvolgono generazioni differenti. Si dovrebbe, quindi, auspicare una politica economica con un approccio intertemporale nel valutare le risorse, affinché i principi della nostra Costituzione possano realmente concretizzarsi.

In ultima analisi è preoccupante altresì il contenuto della raccomandazione n. 3 della Corte dei Conti che riporta : «la Commissione dovrebbe rafforzare il collegamento fra fondi UE a sostegno dei processi di riforma negli Stati membri e le raccomandazioni specifiche per paese». Se l’Italia, quindi, non programmerà nel modo giusto le priorità e le risorse per gli obiettivi, potrebbe non aver diritto ai fondi europei e quest’ultima prospettiva non è sicuramente auspicabile.