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SVB, Credit Suisse, First Republic: lo spettro del contagio

Sui mercati gli analisti sudano freddo e annusano l’aria: dopo il crollo di Silicon Valley Bank e la crisi di Credit Suisse e First Republic Bank, il timore è un replay della Grande Recessione.


Silicon Valley Bank (SVB) era una banca commerciale statunitense con sede a Santa Clara, in California. Essa rientra nel novero delle cosiddette banche regionali, “community banks”, anche se la sua dimensione, la sedicesima per importanza negli USA, è notevole. Il settore di interesse di SVB è rappresentato dalle società tecnologiche e informatiche stanziate nell’area della Silicon Valley, con una predilezione per le start up. Gli investimenti effettuati erano garantiti attraverso l’acquisizione di titoli di Stato statunitensi a garanzia dell’elevato rischio delle operazioni. Semplificando, i rischi presi dalla banca erano compensati “coprendosi” col capitale obbligazionario meno rischioso in circolazione: i fondi del tesoro statunitense.

I tassi di interesse e le falle nella regolamentazione bancaria

Le cause del fallimento sono abbastanza chiare e legate alla dinamica classica della “corsa agli sportelli” (“bank run” nella traduzione inglese) – ben raffigurata nelle sue caratteristiche nel celebre film “Mary Poppins”. La clientela di riferimento della banca ha sofferto negli ultimi anni una sottocapitalizzazione cui i clienti di SVB hanno posto un rimedio prelevando quanto più capitale possibile depositato. Questo ha comportato la necessità dell’istituto di credito di far fronte alla domanda, vendendo gli asset di investimento e, in particolare, i titoli del Tesoro americano. 

I titoli di Stato americani detenuti da SVB presentavano, però, tassi di interesse più contenuti rispetto a quelli attualmente erogati dalla Federal Reserve (Fed), perché figli di un periodo di stimolo all’economia esercitato con rendimenti prossimi allo 0% (o quasi). Le obbligazioni di nuova emissione della Fed prevedono tassi di interesse molto corposi, superiori al 4%, frutto di una politica monetaria aggressiva per bloccare l’inflazione, rendendo i vecchi titoli poco redditizi e di difficile vendita, se non “a sconto” rispetto al valore nominale. 

Dopo aver venduto sul mercato circa 21 mld di asset, perdendo quasi due miliardi sul valore nominale degli stessi, la SVB ha avvisato che avrebbe effettuato un aumento di capitale di circa 2,25 mld per coprire le richieste di prelievo da parte dei correntisti. Dopo questo annuncio, è scattato letteralmente il panico nei confronti della banca che ha spinto al prelievo da parte dei clienti di oltre 41 mld di dollari nella giornata successiva, portando al fallimento dell’istituto. 

Kori Suzuki/Reuters

La “corsa agli sportelli” è stata determinata anche dal sistema regolatorio americano, che prevede un’assicurazione sui depositi, in caso di fallimento, che copre quelli inferiori ai 250.000 dollari: il problema è che circa il 93% dei depositi della banca risultavano al di sopra di tale soglia, rendendo particolarmente nervosi i correntisti, timorosi di vedere andare in fumo i propri soldi, acuendo così la “corsa agli sportelli” e la fuga dall’istituto di credito. Oltre ai limiti sull’assicurazione dei depositi, un altro problema proviene dalla regolamentazione ridotta e dai controlli meno stringenti effettuati dalla Fed, a causa della “regionalità” dell’istituto che analizzeremo nella parte finale dell’articolo. 

Il crollo di SVB non è un caso isolato negli USA. Il 13 marzo, a pochi giorni dal fallimento di SVB, Signature Bank, il ventunesimo istituto bancario statunitense per dimensione, è stato chiuso dalle autorità finanziarie americane a seguito di un’altra “corsa agli sportelli”, la cui genesi in questo caso è duplice: è innegabile che abbia influito la crisi di fiducia dei correntisti dopo il caso SVB, ma in questo caso le difficoltà della banca vanno ricercate nel suo campo di azione privilegiato, le criptovalute

Il settore sta vivendo grosse difficoltà, schiacciato dalla concorrenza degli alti tassi di interesse, e assiste a una continua fuga di capitali, anche a causa della sua volatilità, dopo il tracollo di FTX. Queste difficoltà sono confermate dalla chiusura a inizio marzo della Silvergate Bank (istituto di credito specializzato nelle monete virtuali), cui la fuga dei depositi, dimezzati nell’arco di un trimestre, ha obbligato la società controllante, Silvergate Capital Corporation, al ritiro dal settore e al rimborso ordinato di tutti i correntisti. 

Credit Suisse e la BCE

Il terrore del contagio ha poi valicato l’Atlantico e preso piede fra le valli svizzere, mettendo nel mirino la seconda Banca del Paese dopo Ubs. La ragione sottesa alle paure che hanno fatto sprofondare in borsa il titolo elvetico è semplice e, al contempo, pericolosa: una cattiva gestione dell’istituto di credito. Gli ultimi due anni hanno visto chiudere in rosso il bilancio di Credit Suisse, nel 2021 per 2,7 mld di franchi e ancora peggio è andata nel 2022, con una perdita prevista di oltre 7 mld. A peggiorare la situazione è stata sempre la gestione opaca di molti affari, la scarsa comunicazione verso le autorità, fino al riciclaggio di denaro.

Proprio per quel che concerne le comunicazioni alle autorità, sempre il 13 marzo, la Securities and Exchange Commission (SEC) statunitense, cioè l’autorità garante dei mercati negli USA, aveva messo in dubbio le comunicazioni della banca e richiesto nuove informazioni. Queste dichiarazioni hanno provocato un forte rivolgimento sui mercati che hanno virato definitivamente al rosso dopo le dichiarazioni di Ammar Al Khudairy, Presidente della Banca Nazionale Saudita, titolare di circa il 10% di Credit Suisse e maggiore azionista, dichiaratosi indisponibile a nuovi aumenti di capitale dell’istituto di credito. 

Il terrore di un crollo di Credit Suisse, una banca considerata sistemica con profonde connessioni e agganci nel tessuto bancario europeo e mondiale, con ripercussioni potenzialmente devastanti per il settore, ha fatto agire rapidamente la Banca Centrale Svizzera, che ha immediatamente aperto una linea di credito di oltre 50 mld di franchi svizzeri per sostenere la liquidità dell’istituto. La nuova linea di credito ha temporaneamente placato gli analisti e gli investitori, raffreddando, almeno parzialmente, le tensioni sulla Banca svizzera. La stessa Banca Centrale, inoltre, ha pressato per una fusione con l’altro campione nazionale, Ubs, per risolvere definitivamente il problema. 

In effetti questa è la soluzione che ha prevalso, anche se fra luci e ombre. La valutazione del valore di Credit Suisse si riduce nell’offerta di 3 mld di Ubs a soli 76 centesimi per azione contro un valore di chiusura di venerdì di oltre 1,86 franchi. Come ampiamente prevedibile, il mercato ha seguito il valore dell’offerta di Ubs provocando un crollo nella giornata di lunedì 20 di oltre il 55% del valore del titolo, con una chiusura a 82 centesimi. Probabilmente, nei giorni a seguire, il valore della banca si contrarrà ulteriormente fino a toccare la soglia dell’offerta di acquisizione. 

La proposta di salvataggio prevede, inoltre, la completa svalutazione delle obbligazioni AT1 che al momento hanno un valore di 16 mld. Questo creerebbe un importante precedente nel quale gli obbligazionisti vedono la loro posizione di creditori privilegiati subordinata a quella degli azionisti, i quali riceverebbero i 76 centesimi previsti dall’offerta. In concreto, andrebbe verificato chi possiede quei 16 mld, adesso divenuti carta straccia, e che effetti potrebbero innescare queste svalutazioni sul bilancio dei possessori.

Un’ulteriore valutazione, infine, dovrà essere fatta sull’intero settore delle obbligazioni AT1, che a livello mondiale valgono 275 mld, e il cui valore potrebbe crollare. Il tonfo sul mercato di Hong Kong di HSBC, oltre il 6,2%, lascia intendere che parte di quei 16 mld possano trovarsi nella pancia di quell’istituto. Sempre su HSBC, inoltre, è avvenuta una dinamica che potrebbe propagarsi rapidamente: il calo delle obbligazioni AT1 emesse dalla banca.

Un ultimo accenno andrebbe fatto circa i detentori delle azioni dell’istituto elvetico. Il crollo ha creato nei loro confronti un calo di valore degli asset nei bilanci: si pensi a questo riguardo che Saudi National Bank aveva acquisito la propria partecipazione al valore nominale di 3,82 dollari per azione ed adesso si ritrova con un valore ben più che dimezzato.

La Banca Centrale Europea (BCE), dopo il crollo del titolo di Credit Suisse e la notizia di fuga dei depositi (una sorta di “corsa agli sportelli”), ha informalmente chiesto l’esposizione degli istituti di credito europei nei confronti della banca elvetica. Inoltre, nella conferenza stampa di giorno 16 marzo, pur confermando l’aumento di mezzo punto dei tassi di interesse, ha rallentato su ulteriori strette di politica monetaria. Infine, ha lanciato un chiaro avvertimento ai mercati, nel tentativo di calmare le tensioni: «La cassetta degli attrezzi della BCE è pienamente equipaggiata per provvedere liquidità di supporto al sistema finanziario dell’area dell’Euro, se necessario».

First Republic Bank e le agenzie di rating

Ritornando negli USA, un’altra Banca in forte difficoltà è la First Republic Bank. Anche in questo caso, si tratta di una banca regionale, la quattordicesima per dimensione negli USA, il cui impatto sistemico non sarebbe eccessivo. Per salvarla, sotto la regia della Fed, sono intervenute le principali banche americane, ricapitalizzandola di oltre 30 mld di dollari. In questo caso, il messaggio ai mercati è stato chiaro: le banche più importanti del sistema finanziario americano si fidano della solidità della First Republic Bank e lo dimostrano depositando i propri soldi. Anche in questo caso, la causa delle difficoltà dell’istituto di credito era una forte “corsa agli sportelli” che ne aveva minato le fondamenta.

A incrementare i timori sulla solidità degli istituti di credito americani hanno poi pensato le agenzie di rating. Moody’s ha messo sotto tiro sei banche che presentano caratteristiche simili a quelle che hanno portato al fallimento di SVB: una di queste è ovviamente la First Republic, le altre sono Western Alliance Bancorp, Intrust Financial, Umb Financial, Zions Bancorp. e Comerica. 

Standard and Poor’s e Fitch hanno abbassato il rating della First Republic a livello “spazzatura”, facendo intendere che il sistema bancario americano, nel settore delle banche regionali, presenta dei rischi. Anche in questo caso, però, come avvenuto nella crisi finanziaria del 2008, le agenzie si sono mosse con grave ritardo, non vedendo le crisi e i crolli in anticipo rispetto alle loro realizzazioni. Solo negli ultimi giorni, al contrario, hanno cominciato la corsa al declassamento degli istituti bancari, chiudendo i recinti a buoi ampiamente in fuga.

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Gli interventi della Fed

Nel periodo successivo alla Grande Recessione del 2008 molto si era discusso su come regolare e bloccare future crisi finanziarie. Le posizioni erano le più varie e molti rimpiangevano il Glass-Steagall Act. La soluzione non fu così radicale, come la netta separazione tra banche commerciali e banche di investimento prevista da quella legge del 1933 (e grossomodo ricalcata dalla legge bancaria italiana del 1936), ma furono messi in campo una serie di limiti all’investimento delle banche (si pensi a questo riguardo alla famosa “Volcker Rule”) e una serie di controlli e stress test per le banche.

Il risultato di tutto ciò fu il Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act, comunemente chiamato Dodd-Frank Act. Questa norma prevedeva una soglia di 50 mld al di sotto della quale le banche fossero escluse da questi controlli approfonditi, considerandole, probabilmente a ragione, non sistemiche.

Nel 2018, a distanza di appena dieci anni dalla Grande Recessione, la legislazione sui controlli bancari è stata allentata. Sotto la Presidenza di Donald Trump, anche con il voto favorevole di alcuni membri del Congresso democratici e la feroce opposizione di altri, venne varata la Economic Growth, Regulatory Relief, and Consumer Protection Act, comunemente chiamata Crapo Bill in onore del Senatore repubblicano Mike Crapo, uno dei suoi estensori. Questa norma alzava il limite dei controlli bancari approfonditi dalla soglia dei 50 mld ai 250 mld attuali, escludendo da queste regolamentazioni tutte le “community banks” (banche regionali) che adesso stanno ballando sul Titanic. 

La prima iniziativa della Fed è stata garantire per intero tutti i depositi, anche quelli sopra i 250.000 dollari, per mettere una pezza sulla “corsa agli sportelli”. La seconda iniziativa è stata quella di garantire liquidità al settore bancario attraverso vari canali: innanzitutto, vi è stato un vero e proprio assalto alla liquidità a breve garantita dalla cosiddetta “discount window”, che ha mostrato prelievi da parte delle banche per 153 mld, ben al di sopra del massimo toccato durante la Grande Recessione, che fu di 111 mld.

Sono già stati prelevati, inoltre, 12 mld dei 25 garantiti dalla nuova linea di credito varata il 12 marzo dal Tesoro, il Bank Term Funding Program (Btfp), che permette di usare come garanzia, col loro valore nominale e non quello “a sconto”, i titoli del Tesoro detenuti dalle banche.

Si sono bloccate del tutto, infine, le operazioni di Reverse Repo, cioè quelle operazioni poste in essere dalla Fed per drenare liquidità dal mercato nell’ambito dell’azione di Quantitative Tightening, permettendo di mantenere nelle “pance” degli istituti circa 150 mld di dollari. Il totale di questi interventi supera ampiamente i 300 mld di dollari, al netto dei 50 mld di franchi garantiti, come abbiamo visto, dalla Banca Centrale Svizzera.

Il vaso di pandora di SVB ha spostato su “tempesta” il barometro degli analisti e degli investitori, che si guardano intorno cercando di fiutare quale sarà il prossimo istituto di credito a cadere. Probabilmente le autorità finanziarie statunitensi dovranno mettere in campo altri salvataggi tra le banche regionali – sotto tiro adesso anche delle agenzie di rating – che forse non saranno “too big to fail”, ma che possono costare molto ai contribuenti, sperando che non si crei un effetto domino.

Anche quella su Credit Suisse sembra essere una tregua più che una soluzione definitiva. Una tregua che rischia di aver creato un pericoloso precedente nel quale una tipologia di obbligazioni, di norma un creditore privilegiato, viene coinvolta in un bailout prima degli azionisti e perde il 100% del valore in una notte: chi ha memoria ricorderà il pericoloso precedente coi titoli subprime divenuti carta straccia nell’arco di una manciata di ore. Le aspettative per i prossimi mesi non sono buone.